Steve Vai: Io, Frank e Jimi

Per molti, Steve Vai è il chitarrista più innovativo degli ultimi venticinque anni. Il suo maestro Joe Satriani sostiene di non aver mai incontrato un chitarrista dotato di tanto talento e per centinaia di addetti ai lavori non ci sarebbe erede di Jimi Hendrix e Frank Zappa più credibile sulla faccia della terra. Zappa stesso, non certo un uomo di grandi complimenti, lo considerava poi il miglior musicista con cui avesse mai lavorato, ma la lista degli estimatori potrebbe andare avanti all’infinito. Vai, in realtà, crede di essere soltanto un buon musicista, con una passione smisurata per lo strumento che suona. In occasione dell’uscita del suo ultimo album, ma soprattutto per festeggiare quello che tra pochi giorni sarebbe stato il settantesimo compleanno dell’autore di Purple Haze, ecco cosa Stevie ci ha voluto confidare a riguardo…

Quasi sempre, e per ovvie ragioni, il tuo nome viene associato a quello di Frank Zappa, anche se è noto ai più anche il tuo immenso amore nei confronti di Hendrix. Ricordi la prima volta in cui ascoltasti un suo brano?
Credo che sia impossibile dimenticare la prima volta in cui le tue orecchie vengono inondate dal suono di quella chitarra. Lasciano una traccia indelebile nella mente delle persone, ancora di più in me, che hai tempi avevo poco più di dieci anni ed ero pronto ad accogliere tutto con enorme stupore ed entusiasmo. Mia sorella era di poco più grande di me e aveva una discreta collezione di dischi: uno di questi conteneva la registrazione del set di Hendrix a Woodstock. Fu una vera e propria rivelazione.

Fu quell’ascolto a farti pensare di imbracciare per la prima volta una chitarra?
Ad essere sincero no. Il brano che davvero mi spinse a pensare di voler diventare un musicista fu Heartbreaker dei Led Zeppelin, ma Hendrix fu quello che mi aprì completamente la mente. Senza quel disco oggi probabilmente sarei un contabile o qualcosa del genere: per me fu come Elvis per chi era un adolescente negli anni cinquanta, penso di poter capire cosa provasse quella gente. Come Elvis, infatti, Hendrix poteva contare anche su un fascino immediato, su una fisicità prorompente e appariva pericoloso. Poi aveva quel suono che, pur non capendo assolutamente nulla di musica, capivo essere fuori dal comune e totalmente geniale. Solo più avanti negli anni capii davvero quanto fosse complicato quello che faceva.

Oltre ad aver partecipato all’Experience Hendrix Tour, hai preso parte a diversi tributi e non manchi mai di interpretare suoi pezzi dal vivo. Ricordi la prima volta in cui ti confrontasti con la sua arte?
La prima persona che ebbi la fortuna di sentire suonare un brano di Hendrix fu Joe Satriani, durante una delle prime lezioni di chitarra che mi diede. Era stupendo sentire dal vivo qualcosa che avevo ascoltato con le mie cuffie per anni, tanto che ancora oggi mi emoziono pensando a quei momenti. Pensa che quando iniziai a prendere lezioni, ancora non sapevo che Jimi fosse morto, quindi ero convinto di poterlo vedere dal vivo prima o poi. Fu proprio Satriani a darmi la notizia, pensando che lo sapessi. Mi misi così a studiarlo in modo ossessivo, perché volevo riuscire ad omaggiare colui che in qualche modo mi aveva cambiato la vita. Non dimenticherò mai la prima volta in cui riuscii a completarePurple Haze e quanto mi sentivo figo in quel momento! Oggi come oggi, invece, quel misto di incoscienza e spavalderia è svanita ed ogni volta in cui decido di suonarne un brano la tensione è sempre altissima.

Credi potrà nascere un artista in grado di rivoluzionare in quel modo l’approccio allo strumento?
Assolutamente sì, a patto che musicisti come Hendrix, Zappa o mille altri nomi che potrei farti, rimangano delle semplici fonti d’ispirazione e non degli idoli da emulare. Sarebbe come pensare che potranno esserci altri Beatles o Led Zeppelin: questo non potrà mai accadere, perché quei gruppi ci sono già stati. Se però i nuovi musicisti riusciranno ad essere liberi come lo erano i loro idoli, allora sì che la magia potrà ricrearsi. Hendrix aveva dei punti di riferimento, ma non tentava di suonare come loro. Quello fa la differenza. Pensa al mio amico Van Halen: è riuscito davvero a rivoluzionare il concetto di chitarra elettrica in un periodo storico in cui chiunque pensava che fosse già stato detto tutto.

Veniamo al presente. Perché tanto tempo per un nuovo album?
Perché sono un perfezionista, spesso oltre il limite della tollerabilità. Ci ho messo due anni a comporre la musica di The Story Of Light e almeno altri due a concepirla. Inoltre i miei impegni sono sempre maggiori e la cosa non aiuta di certo il lavoro in studio.

In qualche modo sembri aver abbandonato le sonorità del precedente Real Illusions: Reflections, per tornare un po’ indietro nel tempo…
Penso che il disco sia una sorta di omaggio alla diversità della mia musica, ai vari ambiti intorno cui ho gravitato nel corso della mia carriera. Ho 52 anni, non ho più nulla da dimostrare, né pressioni da parte di label o chissà chi quando mi metto a comporre musica. Sono libero di sperimentare e rischiare quanto voglio.