Chris Cornell Ricorda I Vent’anni Di Superunknown

Vent’anni fa, a poco meno di un mese dalla scomparsa di Kurt Cobain, usciva quello che all’unanimità viene considerato il capolavoro di una delle band più celebri di Seattle. Oggi, per celebrarne l’anniversario, Superunknown viene ripubblicato con il consueto bagaglio di outtakes, b-side e versioni alternative. Per l’occasione, Chris Cornell è tornato indietro nel tempo insieme a noi, raccontandoci un po’ di quei momenti storici.

Prima di iniziare a parlare della ristampa dell’album, vorrei tornare indietro nel tempo e capire chi fosse Chris Cornell nel 1994: umanamente ed artisticamente.

“Per quanto mi riguarda, più o meno le due cose sono sempre andate di pari passo. Con l’uomo cresceva anche l’artista, per così dire e probabilmente la band in quel momento aveva raggiunto l’equilibrio perfetto tra la furia cieca della giovinezza e momenti più riflessivi. Sicuramente non eravamo persone del tutto risolte, ma credo che l’album non rappresentò tanto una svolta nella carriera della band, quanto un tentativo di vero passaggio all’età adulta. Personalmente, ero bene o male un ragazzo come tutti gli altri, direi non più un ragazzino, visto che quando Superunknown uscì ero ormai prossimo ai trent’anni, ma per certi versi ancora molto ancorato agli anni più tormentati della mia vita. Quella generazione visse la contraddizione di dover essere per troppi aspetti molto più grande di quello che era in realtà, con tutti i danni che ciò comporta.”

Da lì a poco qualcuno di voi avrebbe deciso di non voler nemmeno diventare adulto…

“La morte di Kurt rappresentò l’atto più estremo possibile contro quella contraddizione con cui molti di noi si erano trovati a combattere fino a quel momento. Tutto quello in cui credevamo, le canzoni che inserivamo nei nostri album e tutte le problematiche che quella generazione condivideva andavano a scontrarsi all’interno di ognuno di noi con le dinamiche legate al successo. Sostanzialmente ognuno di noi voleva essere conosciuto e apprezzato, ma contemporaneamente l’idea di diventare un fenomeno di massa ci umiliava, perché portava ad una serie di fraintendimenti continui e faceva sì che un sacco di gente che nemmeno conosceva i nostri testi venisse a vederci dal vivo per moda. Kurt viveva malissimo la situazione e reagì peggio di chiunque altro, ma in quei due o tre anni sarebbe potuto succedere ad ognuno di noi.”

Parlando della Seattle Era, Superunknow da questo fu l’ultima gallina dalle uova d’oro per l’industria, che dopo la morte di Cobain si spostò altrove.

“Credo davvero che Superunknow sia l’album più rappresentativo della band, perché racconta perfettamente sia quello che avevamo fatto in precedenza sia quello che avremmo poi composto in futuro, compreso King Animal. Credo quindi che avrebbe avuto tutto quel successo a prescindere dalla scomparsa di Kurt. Però è chiaro che troppi sentimenti contrastanti si legarono a quel disco dopo quel fatto, perché per un attimo mi sembrò che stessimo cavalcando nostro malgrado tutta quell’onda creata da un evento di risalto planetario. Per quanto riguarda l’industria, diciamo che si tratta di una vecchia storia che inizia probabilmente con Elvis e che è stata frenata in qualche modo solo dallo tsunami del download illegale…In un attimo la gente che frequentava il Sunset Strip te la trovavi sotto casa, perché era quello il luogo in cui bisogna stare in quel momento. Molte delle cose che gravitarono intorno al movimento facevano schifo, in primis perché quel movimento avevano voluto crearlo loro.”

In qualche modo la ristampa di un disco però è un assist a quel meccanismo. Pensi sia inevitabile che ciò avvenga ad ogni anniversario?

“(Ride, ndr) In effetti un po’ lo è e probabilmente è uno dei compromessi che si devono fare in questo settore. Se non ci fossimo riuniti a comporre nuovo materiale forse l’avrei presa in modo differente. Ammetto che la contraddizione di cui parlavo prima sia una cosa con cui prima o poi nella tua vita devi fare i conti e io, con tutti le problematiche e gli abusi su me stesso perpetuati per anni, alla fine sono arrivato alla fine del tunnel. È chiaro che l’entusiasmo che hai nel comporre nuova musica sia imparagonabile, ma da grande collezionista di dischi devo anche ammettere che quando vado nei negozi e trovo edizioni deluxe di qualche band che amo, mi ci butto a capofitto. In ogni caso, è un discorso assurdo, perché ad un certo punto arriverebbe qualcuno a dire che la musica non andrebbe nemmeno venduta per essere vera arte. È un cerchio che non si chiuderà mai, ma credo che un quadro di Picasso sia arte anche se viene venduto…”

SAO PAULO, BRAZIL - APRIL 06: Chris Cornell of Soundgarden performs on stage during the 2014 Lollapalooza Brazil at Autodromo de Interlagos on April 6, 2014 in Sao Paulo, Brazil. (Photo by Buda Mendes/Getty Images)

Anche dal punto di vista dei tuoi testi le cose cambiarono non poco per questo album. Fu un caso o qualcosa di dentro di te cambiò proprio in quel periodo?

“Penso sia stato il frutto di un insieme di dinamiche diverse, alcune delle quali legate alle cose che stavamo dicendo prima. Sicuramente fino a quel momento mi ero sempre visto più come un cantante, piuttosto che un autore di canzoni. Ero un fan di quello che oggi chiamano Classic Rock, con i Led Zeppelin a ricoprire il ruolo del gruppo per eccellenza, ma ero anche un fan dei Pink Floyd e dal punto di vista compositivo ero forse più influenzato da loro che da altre band. Prima di Superunknown ero convinto di riuscire a scrivere solo liriche che fossero parte integrante dell’atmosfera creata dalla musica e forse non mi sentivo abbastanza sicuro per scrivere delle storie, magari mie storie. Inizia quasi solo per dimostrare a me stesso che non era la mia via di comporre canzoni e sarei tornato indietro subito se non avesse funzionato. Mi dicono che invece sia andata bene (ride, ndr).”

Hai parlato spesso del tuo amore per i Beatles, ma forse alcuni brani di Superunknown sono i più influenzati di sempre da loro.

“La ragione è molto semplice: in quel periodo stavo scoprendo tutta la loro discografia, non riuscivo ad ascoltare nient’altro e quindi la cosa finì per influenzare inevitabilmente le composizioni. Penso che nella vita di ognuno, a maggior ragione di chi fa musica, ci debba essere un momento in cui l’unica cosa che ascolti siano i Beatles. Ancora oggi che abbiamo visto tutto e ascoltato qualsiasi cosa, alcuni aspetti della loro storia restano inconcepibili e irriproducibili. Credo che insieme a Jimi Hendrix siano stati la cosa che ha influenzato maggiormente tutto ciò che è stato concepito in musica dalla fine degli anni sessanta ad oggi.”

Due anni fa omaggiasti Paul McCartney per i suoi settant’anni, ma le tematiche di Superunknown sono forse più in linea con la scrittura di John Lennon. Che ne pensi?

“I testi rispecchiano tutte le paure che stavamo vivendo in quel particolare momento della nostra vita. Qualcuno disse che si trattava di un disco disperato, che più che  alla vita guardava alla morte. Non credo fosse del tutto così, anche se ammetto che si tratta di brani non leggeri e che in qualche modo rappresentavano il nostro vaffanculo al resto del mondo. Paul è un mito, una specie di Totem per chiunque suoni uno strumento e il mio fu il piccolo gesto di un fan devoto. La maggior parte dei testi di Lennon, però, restano tra le cose più intense che siano mai state scritte. Del suo songwriting ho sempre amato il fatto che spesso non fossero lineari, talvolta apparentemente senza logica, mentre poi di colpo ti si aprivano mille mondi. Penso molti dei musicisti della nostra generazione siano stati influenzati dalla scrittura di John Lennon, in primis lo stesso Cobain.”

Chris Cornel MTV Hive

Per alcuni artisti, ripercorrere il proprio passato è traumatico. Come è stato tornare ai master del disco e lavorare al materiale presente sulla riedizione?

“Non ho mai avuto problemi nel ritornare indietro nel tempo e nel rivivere le esperienze, anche quelle traumatiche. Forse perché non sono una persona nostalgica, ma molto più probabilmente perché ho sconfitto i fantasmi peggiori che mi rovinavano da sempre l’esistenza. È andata bene, perché inizialmente ho provato a cancellarli più che a risolverli e sai che non ho mai avuto problemi nemmeno nel raccontare i miei guai con le sostanze e l’alcol. Detto questo, la cosa che mi ha fatto più emozionare è stata riascoltare le demo e le prove per i brani che sarebbero finiti sul disco: non sono uno che riascolta più di tanto i propri album, ma inevitabilmente negli ultimi vent’anni qualche volta è capitato di risentire questi brani. Tutto quel materiale d’archivio invece mi ha davvero riportato a quei giorni, perché dopo non era più giunto alle mie orecchie.”

Qual era il grado di consapevolezza di quello che stavate creando in studio? Arrivavate dal successo di Badmotorfinger, la consacrazione era nell’aria…

“Sicuramente avevamo acquisito maggior sicurezza rispetto agli album precedenti, anche perché ormai il cosiddetto Seattle Sound avrebbe potuto sfornare qualsiasi cosa che alla gente sarebbe andato bene (ride, ndr). A parte gli scherzi, credo che chiunque componga qualcosa o in generale chiunque sia impegnato nel processo creativo di qualcosa, sia assolutamente critico nei propri confronti e forse proprio in questo sta il segreto di un buon risultato. In ogni campo, quando sei troppo sicuro di te stesso finisci per fare le cose peggiori. Ai tempi avevo sempre due voci nella testa che si scontravano: una continuava a dirmi che erano le canzoni migliori che avessi mai scritto, l’altra che fossero invece uno schifo. Passavano pochi giorni e le voci cambiano opinione sulla stessa cosa, quindi dopo aver appurato di non essere schizofrenico, ho accettato il fatto che solo il tempo possa dare un giudizio equo. Per questo servono i produttori (ride, ndr)!”

Nello stesso giorno di quell’anno uscì un altro capolavoro: The Downward Spiral dei Nine Inch Nails. Un caso che torniate in tour con loro come allora?

“Non un caso, proprio perché la ricorrenza ha aiutato di sicuro che le cose andassero così, ma sicuramente c’è dietro un progetto ben preciso e voluto esclusivamente dalle due band. Nessuno ci obbligava ad andare in tour insieme solo perché l’avevamo già fatto e perché i nostri due dischi sono diventati best seller. Ci siamo parlati e ci siamo trovati d’accordo sul fatto che un tour da co-headliner come questo poteva essere ancora oggi i grandissima attualità e non una cosa tipo i tour dei Chicago insieme ai Reo Speedwagon (senza nulla togliere a certe band, ci mancherebbe). Io parlo di band considerandone sempre il loro aspetto attuale: se avessi pensato che si trattasse di un mega circo con band che oggi non avevano più alcuna influenza, allora avrei desistito. Trent invece è più influente oggi di allora, proprio perché oggi la gente ha piena consapevolezza di chi sia, mentre ai tempi era più difficile giudicare.”

Tu stesso hai ammesso di essere stato influenzato dai NIN in quel periodo della tua vita…

“Sono sempre stato un grande fan dei NIN e di Trent, così come del movimento Industrial in generale. È innegabile che la sua attitudine, i suoi testi e la follia dei concerti di allora fossero grandi fonte d’ispirazione per le varie scene del tempo. Credo che una delle cose più belle di quegli anni fosse proprio che ogni band in qualche modo influenzava le altre, proprio come poteva essere stato tra la fine degli anni sessanta e quella del decennio successivo. Si respirava un’aria incredibile, spinta dalle band che prima di noi avevano dato un grosso scossone a tutto l’ambiente musicale: penso agli U2, che fino a Pop sono state una delle cose più incredibili mai apparse o ai R.E.M., forse la band più coerente della storia della musica. La cosa che più mi affascina dell’andare nuovamente in tour con Trent è che la gente non andrà a vedere delle band morte, ma allo stesso tempo potrà sentire molti pezzi che fanno ormai parte della storia del rock.”

Recentemente avete suonato per intero l’album dal vivo. Siete consci del fatto che in questo modo avete creato delle aspettative enormi per il prossimo tour?

“Purtroppo sì (ride, ndr). Ci è sembrata una cosa divertente da fare, anche se non sappiamo se la cosa avverrà di nuovo in futuro. Ultimamente la scaletta è composta per larga parte da brani del disco, proprio perché il tour cade nell’ano d’uscita, ma l’idea di fare solo canzoni di un disco sicuramente non ci alletta più di tanto. Inoltre non amiamo le cose fatte a tavolino, perché sembrano fatte per attirare un numero maggiore di persone rispetto a quello che verrebbe senza una notizia come questa, quindi preferiamo lasciare una porta aperta e vedere cosa succede. Quella sera ha funzionato tutto alla perfezione, ma con grandi difficoltà, perché ogni brano è suonato con accordature diverse e questo ha fatto allungare un po’ i tempi per via dei continui cambi di chitarra. Se lo ascolti per intero non ti dà mai la sensazione di essere un album così diverso a livello musicale, mentre se ti trovi a scomporlo per suonare la faccenda si complica.”

STAGE01 Soundgarden - Feb 1 - The Rave - photo Credit - Michael Lavine

Per alcuni, gran parte del successo di Superunknown è merito di Black Hole Sun. Quali sono i tuoi sentimenti nei confronti di questa canzone, ti senti in dovere di suonare sempre e comunque?

“Ognuno ha le proprie convinzioni su tutte le cose. In America l’album debuttò al numero uno, quindi si può dire che fosse il momento giusto a livello di pubblico, che tutto ciò che usciva da Seattle veniva comprato a scatola chiuso e quant’altro, ma che sia diventato un successo per una canzone mi sembra fuori luogo. Che poi quella canzone abbia contribuito in maniera mostruosa a far sì che l’album sia stato un best seller per lunghissimo tempo, è innegabile e sarei un pazzo a non ammetterlo. Black Hole Sun scardinò le ultime porte che non avevamo ancora aperto e contribuì a farci diventare delle superstar, contribuendo in qualche modo anche alla fine stessa della band da lì ad un paio d’anni. In ogni caso resta uno dei brani di cui vado più fiero e che canto più volentieri dal vivo, non perché la gente la voglia sentire.

Eppure resto dell’idea che divenne una hit per via del proprio andamento, perché il testo non ha alcun aspetto in comune con le ballad che facevano diventare i dischi dei million seller.

“Forse è uno dei pochi casi in musica in cui il fraintendimento di un brano gli abbia in qualche modo giovato. Quando i dirigenti della casa discografica ascoltarono il pezzo e decisero che poteva essere usato come singolo, pensai immediatamente che non avessero minimamente dato retta al testo, che tutto fosse tranne che una ballad classica da band metal del periodo. Non era una canzone d’amore, né perduto né trovato, così come non aveva delle liriche così radiofoniche, per così dire. Invece dissero di sì e fu sensazionale sentire alla radio certi concetti. Il problema dei paesi non anglofoni poi è ancora diverso: ora come ora molte più persone prendono la briga di andare in rete e cercarsi i testi di una canzone, ma una volta in tanti nemmeno aprivano il libretto per vedere se fossero i testi: la melodia era bella e bastava quello.”

Un po’ come Bobby Brown di Frank Zappa che divenne una hit in paesi che non conoscevano una parola d’inglese, con la gente che si ritrova nelle discoteche a cantare di golden showers…

“Esattamente (ride, ndr). In quel caso la cosa divenne esilarante e immagino il divertimento di Zappa nel sapere di essere riuscito a prendere per il culo un po’ di gente che ripeteva a caso delle parole di cui nemmeno conosceva il significato. Il problema, ad ogni modo, resta serio e fu causa dei maggiori dibattiti sulla musica degli anni novanta. Non è mai bello quando qualcosa che scrivi viene frainteso o completamente ignorato, così come quando il pubblico prende un brano e lo erige a simbolo della tua poetica. Zappa in questo, come in altre mille cose, fu un precursore, anche se gente come Jim Morrison, per esempio, combatté per anni affinché fosse riconosciuto il valore dei suoi scritti. Gli stessi Page e Plant negli anni novanta han fatto centinaia di concerti senza suonare mai Starway To Heaven: è terribile come una tua creazione possa arrivarti in odio.”

Credo che Superunknown abbia rappresentato un punto di svolta anche per il Cornell cantante dei Soundgarden: prima solo nel progetto Temple Of The Dog si era sentito quel lato della tua voce.

“Per me non fu affatto facile rapportarmi alle reazioni della gente dopo l’uscita di Temple Of The Dog. Tutti continuavano a dirmi che non immaginavano che potessi cantare in quel modo, che erano rimasti strabiliati dalle evoluzioni che ero stato in grado di fare e un sacco di affermazioni simili a queste. La mia reazione iniziale fu di stizza e continuavo a chiedermi come potesse dire certe cose gente che nemmeno mi conosceva: l’avevo presa come una vera e propria offesa. La verità che è che per Superunknown fu proprio il sound della band a cambiare e non il mio stile canoro. Fino a quel momento non erano servite quelle tonalità, perché le scelte musicali erano diverse, tutto qui. In ogni caso prima o poi quella vocalità sarebbe uscita, semplicemente forse quello era il momento in cui tutta la band era settata su quel mood.”

Ho sempre trovato il termine alternativo molto stupido per descrivere il rock che dominò le classifiche di quegli anni. Ti ci sei mai riconosciuto?

“Ho sempre trovato molto stupidi in generale i termini per etichettare qualcosa, ma alcuni è giusto e normale che ci siano, almeno per dare un minimo di guida all’ascoltatore. Alternativo, in effetti, in sé non possiede nemmeno delle qualità relative al genere che dovrebbe descrivere, ma lascia solo intendere che sia diverso da qualcos’altro. Onestamente , non ho mai sopportato nemmeno il termine Grunge, che tutti noi percepimmo subito essere quello che serviva a media e case discografiche per creare quella macchina che poi effettivamente nacque. Basta ricordare che ancora oggi noi veniamo sempre affiancati ad altri tre nomi classici: Nirvana, Pearl Jam e Alice In Chains: dimmi tu se, al di là di una sensibilità comune legata ad una serie di motivi precisi, quattro band del genere possono essere considerate colonne portanti dello stesso genere musicale.”