Motörhead: Intervista A Lemmy Kilmister

Difficile dire qualcosa su Mr. Lemmy Kilmister e sui Motörhead che non sia già stata detta o senza incorrere nei cliché che da sempre ne circondano la leggenda. Così come è risaputo che l’autore di Ace Of Spades  non sia proprio un amante delle interviste promozionali e delle chiacchiere (a meno che non siano rigorosamente da bar). Qualche volta, però, i miracoli accadono: divertito e autoironico, Lemmy ci ha riassunto i suoi ultimi anni e la nascita di Bad Magic. In attesa di vedere la band in Italia a febbraio, godiamoci l’intervista di una leggenda vivente…

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Inizio questa intervista con qualche timore reverenziale, sapendo che non sempre queste situazioni ti mettono a tuo agio…

“No, non mi mettono a mio agio le persone sgradevoli, quelle che vogliono dire chi sono senza conoscermi o essere me e che mi parlano solo del passato senza capire che per un artista il presente è importante tanto quanto quello che ha fatto un tempo. Qualche volta non sono stato molto garbato in situazioni del genere, ma credo che non sia nemmeno una cosa che riguarda solo me o quello che si pensa del mio personaggio. Forse sai che non ho problemi di alcun tipo nel parlare di nulla, non nascondo i lati peggiori di me, né quelli che credo siano oltremodo positivi (che in genere sono quelli che la gente ritiene negativi). Basta avere rispetto e io non mancherò di rispetto a nessuno. Dunque sentiamoci liberi di iniziare a parlare (ride, ndr)!”

Vista la premessa, iniziamo da Bad Magic. Mentre lo registravate, vi ha influenzato pensare che fosse l’album del vostro quarantesimo anniversario?

“(Ride, ndr) Inizi con il presente solo perché te l’ho chiesto espressamente, ma almeno il titolo dell’album è quello giusto! Assolutamente no, sostanzialmente quando scrivo qualcosa non me ne frega un cazzo del resto. Come sai però siamo molto legati ai nostri anniversari, in primis perché sono del tutto inspiegabili per noi, quindi quei quattro numeri romani in copertina sono lì a ricordarlo. Onestamente, siamo perfettamente convinti che sia semplicemente una questione di fortuna: qualcuno è più fortunato e qualcuno meno, poi c’è chi ha più fortuna di quello merita e qualcuno pensa che sia il nostro caso, ma onestamente me ne fotto anche di queste cose. Se già una volta erano poche le cose per cui non dormivo, dopo  i fatti degli ultimi anni ho fatto pulizia di molta della merda che mi circondava ancora.”

Quindi nessun evento celebrativo come da tradizione?

“Ho imparato recentemente quanto sia meglio programmare tutto con meno fretta: ormai sono vecchio, quindi va tenuto conto di tutto. D’altra parte però, pensare di essere prossimo ai settant’anni mi conferma anche che forse, tutto sommato, ho avuto ragione io: Pete Townshend non era l’unico a credere di morire prima di diventare vecchio. Qualche volta mi chiedo cosa ho fatto di male per meritarmelo (ride, ndr). Detto questo, abbiamo in cantiere l’idea di una celebrazione, che molto probabilmente avverrà nel luogo che più di altri con noi ha segnato un binomio conosciuto da chiunque. Oppure vi accontenterete del nuovo album senza rompere troppo i coglioni. Mi preme anche ribadire che tutto quello che abbiamo raggiunto  e che celebriamo, lo dobbiamo totalmente alla buona sorte e a nient’altro. Senza quella probabilmente staresti parlando di me al passato con Phil Campbell.”

Mi pare riduttivo, anche perché tu e la band probabilmente non siete mai stati così popolari come oggi, come dimostrato anche dal successo di Aftershock. Come ti spieghi questa cosa?

“Non si può spiegare in modo razionale, se non forse per tutto il clamore mediatico circa la mia salute degli ultimi anni. Anche se devo ammettere che  il nuovo millennio non è stato avaro di soddisfazioni e ha visto un grande percorso di crescita di pubblico intorno al gruppo, come forse non accadeva dall’inizio degli anni ottanta . Sorrido perché, se penso a come venivamo considerati nella seconda metà degli anni novanta, è completamente assurdo essere considerati delle leggende viventi oggi, perché già allora avevamo fatto tutto quello per cui siamo celebri. Eppure è un meccanismo che scatta nella gente a un certo punto: iniziano a parlare di te come di qualcosa da vedere almeno una volta nella vita, tutti iniziano a fingere di conoscerti per moda e la cosa in qualche modo si riflette su vendite e concerti. Succede a tutte le band vecchie, a un certo punto la gente ha paura di non poterti più venire a vedere.”

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Eppure hai detto che la tua paura di non rivedere più la gente da un palco ha spinto anche te a cercare di rimetterti in piedi e tornare a suonare.

“Il rischio vero più che altro era quello di non uscire più dall’ospedale (ride, ndr), quindi in primis dovevo lasciare quel cazzo di letto per poter tornare su un palco. La fretta di ripartire mi ha anche fatto fare qualche errore di valutazione, ma ormai è andata così. Vedermi affaticato forse avrà scalfito un po’ il mito dell’uomo indistruttibile, ma allo stesso tempo mi ha ridato un’umanità che forse mi serviva. Non ho mai avuto paura della morte, in nessun periodo della mia vita e nemmeno questa volta, semplicemente ho capito che stavo morendo o che comunque era una possibilità con cui dover fare i conti. Quello mi ha fatto desiderare di tornare a suonare per il nostro pubblico, ma per farlo sono stato costretto a cambiare qualcosa nella mia vita, anche se ai medici ho chiesto di dirmi cosa potessi mantenere.”

E loro cosa ti hanno risposto?

“Le abitudini sane, che però non erano così tante. Ho dovuto smettere di fumare e l’ho fatto senza alcun problema o l’aiuto di medicinali: se devo smettere prendendo altra merda, allora continuo a farlo. Ho dovuto smettere con la coca, anche se ogni tanto la tentazione vince ancora. Di sicuro non sono riuscito a smettere di bere, non ci ho pensato seriamente nemmeno per un quarto d’ora, perché sapevo bene che non ci sarei riuscito e credo che nemmeno i medici stessi ci abbiano sperato più di tanto. Non è una questione legata al personaggio o a qualcosa del genere, infatti non ho problemi a dire di essermi dato una regolata, ma smettere con tutto non era possibile: quello che sono è indissolubilmente legato al mio stile di vita e viceversa e non ho mai finto di essere chi non sono.”

Una cosa che non vorresti sentirti chiedere sull’ultimo album?

“Che sia uguale a tutti gli altri (ride, ndr). Anche se me l’hanno già detto in decine di giornalisti. Ultimamente camuffano un po’ la domanda, ma alla fine il significato è bene o male sempre lo stesso: mi dicono che con le nuove canzoni sono tornato indietro nel tempo, alle origini della band e altre cazzate di questo genere. La verità è che non sanno che cazzo dirti e continuano a definire i Motörhead una band metal o hard rock, cosa che mi ha sempre fatto uscire di testa. Non ho mai detto una volta di sentirmi parte di un genere, né tanto meno credo che l’heavy metal sia qualcosa in cui infilarci. Facciamo rock n roll. Sono molto più felice quando parlano di punk in riferimento alla nostra musica, mi ci riconosco molto di più e l’ho sempre dichiarato. Per il resto ascolto sempre la stessa roba: Beatles, Stones,Who, Chuck Berry.”

La stampa non ti darà soddisfazioni, ma gente come Brian May, John Lydon e Dave Grohl, quando parlano di voi, vi definiscono la più grande rock n roll band al mondo…

“Mi fa molto piacere sentire complimenti di questo tipo, anche se in effetti mi hai fatto tre nomi di amici quindi è più facile in questo modo. Che poi a me non frega un cazzo che la gente pensi che siamo la migliore o la peggiore band al mondo, ma ci tengo che dicano che siamo un gruppo rock n roll. È una cazzata, me ne rendo conto, ma a volte pure io mi attacco a delle piccolezze: so benissimo che il novanta per cento della gente che viene a vederci sia amante del metal o del rock più pesante, ma credo anche che chi viene ai nostri concerti sia anche un fan degli Stones o dei Ramones. Ho più cose da spartire con questa gente piuttosto che con gli Stratovarius, non credi? Ad ogni modo, per tornare a noi, i tre nomi che hai fatto rappresentano tre generazioni di musicisti, quindi significa che siamo arrivati dove volevamo arrivare all’inizio di tutto.”

Tornando a Brian May, il chitarrista dei Queen appare per la prima volta in un vostro album da studio. Come è stato confrontarsi con il suo stile?

“Brian è un nostro grande amico, nonché uno dei musicisti che ho amato di più in vita mia. È una persona splendida, di grande umanità e credo sia uno dei musicisti più sottovalutati di sempre, nonostante possa sembrare paradossale, visto il successo planetario che ha ottenuto coni Queen. Come forse saprai, aveva già suonato con noi Overkill sul concerto per il venticinquesimo anniversario all’Hammersmith, quindi era già ufficialmente nella nostra storia, ma erano anni che avremmo voluto fare qualcosa insieme in studio. Abbiamo quindi pensato che i nostri quarant’anni sarebbero stati l’occasione perfetta per realizzare questo sogno comune: dunque ecco come è nato l’assolo di The Devil. Servirà a zittire tutti quegli idioti che continuano a vederlo come un chitarrista pop!”

Victory Or Die e Thunder And Lighting sono il classico inizio super tirato di ogni album dei Motörhead che si rispetti. Segui una sorta di schema quando ti rimetti a scrivere?

“Assolutamente no e fidati che te lo direi se fosse altrimenti. Semmai, una volta che abbiamo composto una manciata di pezzi, andiamo in studio e li registriamo in una sola o massimo due take. Poi, fatto questo, sì che ci mettiamo a scegliere come disporre i brani, in modo da ottenere quel crescendo emotivo cui forse facevi riferimento quando parlavi di schema. I brani di cui parli sono nati come sempre e credo ce ne fossero almeno altri quattro con i quali fosse possibile iniziare il disco. Se sono tutti uguali i nostri album, allora tutti i brani sono intercambiabili (ride, ndr). Per dimostrarti il contrario, ti dico anche che Aftershock è stato uno dei nostri dischi di maggior successo, ma questo è nettamente superiore e magari a sua volta per qualcuno è inferiore a Inferno: comunque sia, i paragoni tra album rimangono tutte seghe mentali da giornalisti che non hanno molto da dire circa la band di cui scrivono.”

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Seghe mentali o meno, è riconosciuto all’unanimità che dalla seconda metà degli anni duemila qualcosa sia cambiato in meglio per voi…

“Quello è innegabile. Eravamo giunti a un punto in cui il nostro pubblico era numeroso, ma sostanzialmente ormai lo stesso: la stampa ormai ci considerava bolliti e ripetitivi, la gente veniva a vederci ma comprava sempre meno i nostri dischi. Poi ci siamo messi a lavorare ad Inferno e ci siamo resi immediatamente conto di che cosa stesse nascendo e di quanto fosse maledettamente buono. Rivedere tutta la stampa mondiale parlare così bene di un nostro album fu incredibile e ci rilanciò completamente sul mercato. Da quel momento è come se avessimo raggiunto lo status di classici del rock, nel senso che negli ultimi dieci anni parlano bene di qualsiasi cosa facciamo: certi meccanismi sono completamente folli.”””

A proposito di classici: confrontarvi con Sympathy For The Devil non deve essere stato semplice. Quando è nata l’idea?

“È stato piuttosto stimolante metterci a suonare un pezzo così grande degli Stones, un po’ come quando ci siamo messi a rifare altri grandi brani altrui. A volte ti riescono molto bene, altre volte meno, ma è sempre divertente interpretare qualcosa che non hai scritto ma che senti particolarmente vicina a te o alla tua attitudine. Un po’ come avvenuto con God Save The Queen qualche anno fa: ci sono canzoni che capisci subito andare alla perfezione per il tuo sound. Rispetto al pezzo dei Sex Pistols, qui c’era qualche dubbio in più, visto l’andamento del brano, ma sai bene che scorre anche molto blues nelle nostre vene. Abbiamo quindi voluto rimanere molto fedeli all’originale, perché credo che si debba essere rispettosi degli arrangiamenti creati dagli autori. L’idea, ad ogni modo, ce l’ha data il nostro amico Triple H, che voleva suonassimo ancora qualcosa per lui e i suoi incontri dopo un po’ di tempo passato dall’ultima volta.”

Il diavolo è comunque la figura che ricorre forse di più in Bad Magic. Anche il titolo è qualcosa di legato a temi diabolici?

“Per una serie di situazioni, a volte anche non programmate come quella di Triple H, le nuove canzoni hanno finito per avere degli elementi comuni, quasi tutti legati alla figura del diavolo o alla magia nera. Non ti dico che sia un album a tema, quello no, però sicuramente un minimo di fil rouge lo puoi trovare facilmente all’interno delle tracce. Per certi versi le liriche sono malsane e misteriose e contribuiscono a dare un alone particolare al disco. Devo dire che io non avrei senso di esistere da ormai una vita senza Phil Campbell e Mikkey Dee: se qualcuno si chiedesse ancora quale sia la migliore formazione della band in questi quarant’anni, la risposta potrebbe essere una sola. Ascoltati le parti di chitarra si Electricity e dimmi se trovi qualcosa di simile in un altro album della nostra discografia.”

Con loro ormai l’intesa è così collaudata che siete diventati una di quelle band cui basta guardarsi per capire che brano suonare, come i più grandi gruppi live di sempre.

“Sicuramente non siamo il tipo di gruppo che si mette a cambiare completamente scaletta ogni sera o cose di questo tipo. In genere abbiamo una setlist e ci atteniamo abbastanza a quella. Però quello che dici è verissimo: ormai suoniamo completamente a memoria e credo che questo sia uno dei segreti di questa line up, che non mi stanco mai di ripetere essere la più longeva della nostra storia. Una marea di fan, soprattutto i più giovani, sono persino convinti che sia l’unica formazione esistita, tanto che qualche volta mi ci convinco pure io (ride, ndr). Non so se suoni, ma non doverti mai preoccupare di quello che fanno i tuoi compagni è favoloso e ti toglie tutte quelle tensioni che non hanno nulla a che vedere con la musica e ti impediscono di dare tutto. Troppe volte negli anni ho dovuto preoccuparmi di aspetti che, con delle persone più serie, non sarebbero mai venuti fuori. Poi ho trovato loro, segno che forse il karma doveva qualcosa persino a me.”

Till The End è probabilmente il tuo brano più personale di sempre. Una riflessione nata dopo tutti i problemi che ti sei trovato a vivere?

“Tanti pensano a me e alla band da un solo punto di vista e finiscono per perdere migliaia di sfumature musicali e di testi. Quando incontro questa gente che vuole sapere tutto di me o deve scrivere articoli retrospettivi sulla band, gli dico che il grosso potrebbero farlo semplicemente leggendo i miei testi. Invece pare che sia una cosa troppo complicata da comprendere. Vogliono sentirlo da me, come se avesse più valore, ma quello sono sempre io (ride, ndr). In genere mi consola il fatto che quella sia gente che ha davvero poco a che spartire con me e con la nostra musica, come quei discografici a cui finisce per caso un gruppo da gestire e si presentano con la maglia della band. Capisco dopo un secondo che non abbiano un cazzo da spartire con me e che hanno ascoltato un best of un’ora prima di incontrarci. Gente stupida.”

Ma il modo di scrivere pezzi è cambiato alla luce di quei fatti o ha amplificato alcuni degli aspetti di cui parli?

“Se parliamo nello specifico di Till The End, è indubbio che tutto quello che ho vissuto abbia influito sulla stesura del testo. Non so se sia il mio testo più personale, di certo è molto intenso e credo siano quei testi che ti escono davvero ogni vent’anni, quindi bisogna fare in modo che non vadano persi. Come dicevo, non ho paura di morire, né tantomeno mi preoccupo del dopo, ma di certo ho compreso meglio due cose: che ho dei limiti, ma che non mi ci voglio nemmeno arrendere. Insomma, ho capito che anche io morirò, ma non voglio certo passare gli ultimi anni in un ricovero (ride, ndr). Per il resto, credo di non essere cambiato poi tanto come songeriter: non mi sono messo a parlare di gloria celeste o di Dio, né tantomeno sono diventato più profondo, anche perché lo sono sempre stato nella giusta misura. Per concludere, Till The End sostanzialmente dice che farò questa vita per sempre.”

Ogni tanto dalle tue parole traspare un po’ di rammarico per non essere considerato come dovresti come autore di canzoni. Ti pesa dopo tanti anni?

“Devo confessarti che avrei voluto che questo aspetto venisse sottolineato maggiormente e negli anni la cosa un po’ ha iniziato a pesarmi. Il problema sta forse nel cliché della rockstar che non è in grado di intendere e di volere o che, se lo è, può parlare solo di birra e figa. Per l’amor di Dio, sono argomenti che ho conosciuto e continuo a conoscere ancora molto bene, ma i miei testi hanno sempre riguardato gli argomenti più disparati, spesso anche non banalissimi o abusati. Ormai ho settant’anni e non ci spero nemmeno più, però vedere che col tempo qualsiasi gruppo o autore preso poco sul serio venga rivalutato, un po’ dispiace. In genere, poi, sono i belli a subire questo tipo rivalutzione, perché sono i primi a non venire considerati come autori di talento. Ad ogni modo, anche in questo caso non si tratta di qualcosa che mi riguarda da vicino (ride, ndr).”

Il disco è registrato completamente dal vivo?

“Quasi completamente, se consideri qualche inevitabile ritocco e per esempio il solo di Brian May di cui parlavamo prima. Non c’è niente da fare, abbiamo capito che dal vivo in studio è il modo migliore in cui riusciamo ad esprimere tutta la nostra potenza. Funziona quasi sempre così quando ci mettiamo a pensare il da farsi per un nuovo album. Devo dire che non siamo tipi da molte parole, in particolare io, quindi anche durante la fase compositiva ognuno è impegnato a fare il suo: loro pensano alla musica e alla fine arrivo io con i testi, pochi take e via. Quello che parla di più è Phil, che infatti in pratica è il nostro portavoce quando dobbiamo comunicare qualsiasi cosa, in particolare le cose brutte (ride, ndr). La verità, tuttavia, è che a volte le canzoni vengono meglio di altre, quindi non solo è impensabile non sbagliare mai un colpo, ma soprattutto chi ad ogni album ti ripete che è il migliore, sa di dire un’enorme stronzata.”