Deep Purple – Firenze 5/11/2015

Ci sono band che vai a vedere perché pensi sia l’ultima volta che le vedrai o perché, per un motivo o per l’altro, non sei ancora riuscito ad ammirare dal vivo. Poi ci sono quelle che non puoi fare a meno di vedere ogni qualvolta vengono a suonare a due passi da casa tua (o a un po’ di più…). Della seconda categoria, per chi scrive, fanno sicuramente parte i Deep Purple. La band inglese è tornata a godere da anni della stima che qualsiasi gruppo di questo calibro deve meritarsi da parte di chiunque, ammiratori e non. Sopravvissuta a decine di cambi di formazione, la band è riuscita a mantenere intatto quello spirito nato alla fine degli anni sessanta, ma cementificatosi solo con l’arrivo di Gillan e Glover, oggi per altro ancora della partita. Chi non viene a vederli in concerto perché non c’è più Blackmore è semplicemente stupido ed è un bene che stia a casa ad ascoltare il Man In Black vestito da elfo suonare musica medievale. Iniziamo col dire che, rispetto alla data di Milano, la band ha stravolto non poco la scaletta, dimostrando di trovarsi davvero in un ottimo momento, tanto dal punto di vista dell’entusiasmo che della voglia di rimettersi in gioco ogni sera. L’iniziale Highway Star, che toglie luce alla recente Après Vous, lascia intuire immediatamente al pubblico fiorentino che non si tratterà del concerto fotocopia di quello del Forum d’Assago, tanto che la successiva Bloodsucker viene accolta con un entusiasmo pari a quello riservato ai super classici. Se vogliamo poi, per tutti i fan, il brano contenuto in In Rock è a tutti gli effetti un classico del Mark II, con tutti gli elementi che ne hanno reso celebre la furia in sede live. Gillan, come accade da diversi anni, dà subito tutto quello che ha in termini di urla, sapendo di non poter reggere a quei livelli per troppo a lungo. I nuovi brani, oltre ai classici strumentali e a quel che rimane delle celebri improvvisazioni, hanno infatti il compito di aiutare il cantante che, in ogni caso, dimostra di possedere ancora qualcosa di cui un sacco di nuove leve francamente non dispone. I brani dell’ultima parte di carriera convincono più oggi che all’uscita di Now What?!, a dimostrazione del fatto che suonale per qualche anno tutte le sere ha fatto capire quali siano le migliori in fase live. È il caso di Hell To Pay, per esempio, che seppur non possedendo il fascino irresistibile delle loro hit, si fa ascoltare con piacere tra un classico e l’altro. Vincent Price, va da sé, finisce per essere ormai un omaggio all’attore recentemente scomparso, quando in realtà nacque più per celebrarne il mito cinematografico. Tra le cose migliori della serata, certamente una tiratissima Space Truckin’ (con un Gillan di nuovo strepitoso) e Perfect Strangers, altra sicurezza assoluta e brano che ogni volta mi fa godere più di Smoke On The Water. In generale, tuttavia, la cosa che più colpisce è la sensazione di perfezione che da dieci anni a questa parte ti porti a casa dopo ogni loro concerto: se queste sono band bollite, cari miei, andatevi ancora a vedere i Mötley Crüe…