Marilyn Manson – Concerto Firenze 9/11/2015

Sono convinto da tempo che Marilyn Manson, insieme al solo Axl Rose, sia l’ultima grande rockstar vivente. Per molti questa affermazione equivale ad una bestemmia, ma ogni volta che ho l’occasione di vedere Mr Brian Warner su un palco, la mia idea ne esce rinforzata. Se lasciamo da parte le sterili polemiche tipicamente italiane legate allo sbarco a Firenze di Papa Francesco poche ore dopo la venuta di Manson, quello che resta è una figura impossibile da trattare in modo diverso da gente che ha segnato la storia della musica popolare. Perché Manson la storia della musica l’ha segnata eccome, con l’aggiunta di un’intelligenza e una cultura rara in un settore spesso dominato da cialtroni e minus habens. Come tutte le figure così controverse e contraddittorie, Marilyn Manson è sempre stato in grado di dividere tanto il pubblico quanto la critica specializzata, da sempre più interessata ai suoi comportamenti bizzarri piuttosto che alla sua arte. Chi invece ne segue il percorso fin dagli esordi, sa bene quanto in lui personaggio ed artista finiscano spesso e inevitabilmente per coincidere e confondersi, dando vita a qualcosa di davvero difficile da inquadrare con precisione. Detto questo, il Manson che si presenta all’Obihall di Firenze è, almeno dal punto di vista esteriore, sempre più uomo e sempre meno maschera, un processo iniziato pochi anni fa e giunto oggi probabilmente a pieno compimento. Rispetto alla data milanese di pochi mesi fa, poi, l’autore di Antichrist Superstar pare sempre più a proprio agio in questa nuova rappresentazione di se stesso e l’accoglienza del suo pubblico sembra la migliore delle risposte a chi lo ritiene finito da almeno dieci anni. La serata inizia come di consueto con Deep Six, utile a scaldare gli animi e a dimostrare ancora quanto dannatamente buono sia il materiale presente nell’ultimo lavoro da studio, ma è solo con la successiva Desponsable Teens che il concerto prende davvero il volo: la bolgia del palazzetto, pieno al limite delle norme di sicurezza, esplode infatti come se le lancette dell’orologio fossero tornate indietro di almeno quindici anni. Vocalmente, Manson è in forma strepitosa, cosa evidenziata in parte lungo tutte le date di supporto a The Pale Emperor: l’artista che solo fino a pochi anni fa non riusciva ad andare oltre il quinto pezzo senza perdere la voce sembra definitivamente un ricordo lontano. La ritrovata forma psicofisica lo porta spesso ad osare, senza paura di doversi risparmiare per il classico finale ricco di brani impegnativi e provanti, oltre a non dover più perdere tempo con trovate o lunghe pause che spesso rompevano la tensione tra un brano e il successivo. La verità, è che quello che abbiamo davanti oggi è forse quanto di più vicino a Brian Hugh Warner si sia mai visto in pubblico dalla metà degli anni novanta ad oggi, tanto che non mi stupirebbe se il prossimo album uscisse col proprio nome di battesimo piuttosto che col celebre nome d’arte. Lo show termina dopo la consueta ora e mezza scarsa con una versione di Coma White che mette i brividi e che sottolinea nuovamente quanto chi non lo consideri uno dei migliori songwriters della storia non abbia davvero colto nulla della sua poetica. Inoltre, il Manson uomo è forse ancora più disturbante della sua rappresentazione scenica, perché vederlo così a nudo ne evidenzia ancora di più il lato tragico e decadente. Con la sensazione perenne che continui a non fregargli un cazzo di chiunque abbia di fronte. A cominciare da tutti quelli che continuano a indignarsi per la Bibbia bruciata durante l’esecuzione di Antichrist Superstar