Dossier 80’s: L’underground, Dai Joy Division Ai Gun Club

Nello stesso momento in cui le classifiche pop venivano scalate da quella che per molti non era altro che musica di plastica fatta di testi stupidi, sintetizzatori ed effetti vari e mentre le grandi rockstar del decennio passato cercavano invano di reinventarsi, spesso abbandonando le sonorità che li avevano resi celebri in favore di nuove tecnologie ed elettronica, nuovi fermenti e focolai musicali iniziavano a prendere vita nell’underground di molte parti del mondo, in particolare nei due paesi che da sempre avevano creato i germogli per ogni nuovo movimento, Stati Uniti ed Inghilterra.

Gli artefici di questa rivoluzione sotterranea, fondamentale per creare le basi di tutta la musica che nascerà soprattutto negli anni novanta, furono ragazzi influenzati non più dalla musica di Beatles e Rolling Stones, ma proprio da quel movimento punk che aveva cercato, evidentemente senza riuscirci, di spazzare via tutti gli orpelli, le pomposità e le pose da star che gli anni settanta avevano lasciato loro in dote. Una generazione ormai disillusa e con ideali agli antipodi rispetto a quelli dei genitori hippy, ma allo stesso tempo frustrata anche dallo spegnimento di un movimento nel quale erano riusciti a riconoscersi, se non altro perché i sentimenti di chi andavano a vedere suonare si avvicinavano tremendamente ai propri. Questa rabbia e la frustrazione che ne traeva alimento, inasprita ulteriormente da una situazione politica sempre al limite della schizofrenia, spesso trovò l’unica via di protesta contro il sistema in una violenza sonora e concettuale talvolta ancora più radicale rispetto a quella del punk stesso, come nel caso dell’hardcore, altre volte semplicemente rassegnata e quasi nichilista come quella della new wave, ma in ogni caso comunque estrema e di rottura nei confronti di tutto. Gruppi che, al di là di qualche caso davvero eclatante, finiranno per entrare sì nella storia della musica popolare, ma perché accomunati da una sola caratteristica: quella di venire ricordati come seminali senza mai aver potuto assaporare il vero successo di massa. Se l’hardcore americano di gruppi come Black Flag e i primi Hüsker Dü, giusto per citare due nomi, aveva puntato sull’estremizzazione sonora o testuale dei canoni punk, il coraggio di ammettere le proprie debolezze e di non dover a tutti i costi mostrare un animus pugnandi fu probabilmente uno dei fili conduttori di altri generi che videro la luce dalla fine del movimento, ma che presero altre vie: la new wave e il post punk, spesso considerati alla stregua di sinonimi per via della difficoltà nel trovarne differenze e definizioni precise. Nel giro di pochi anni videro infatti la nascita (e talvolta la fine prematura) band che segneranno per sempre la storia della musica popolare, come Joy Division, Siouxsie And The Banshees e Cure, ma anche Smiths e Nick Cave And The Bad Seeds, solo per citare le più seminali. Da sempre affascinato da personaggi della storia del rock come David Bowie e Jim Morrison, così come dalle opere dei poeti romantici ottocenteschi e infatuatosi in fretta dei Sex Pistols, Ian Curtis è un aspirante cantante di Manchester, dai toni quasi baritonali e melodrammatici. L’incontro tra le sue poesie e la visione musicale del chitarrista e tastierista Bernard Sumner porterà alla nascita del sound gelido ed ossessivo dei Joy Divison, perfettamente bilanciato tra la glacialità del cantato di Curtis e i fantasmi che ne possedevano da sempre la sua fragilissima mente, segnata per di più da continui attacchi epilettici che ne mettono costantemente alla prova fisico e psiche. Per due soli album, uno dei quali postumo, verranno incisi su nastro alcuni dei testi più lugubri mai sentiti in musica, pregni di una carica introspettiva esasperata e in grado di esprimere la più totale solitudine e sfiducia verso il mondo circostante, ma che nel profondo erano ancora colmi di quella forza devastante e quell’attitudine che collegava Curtis ai suoi idoli del punk. Una serie di canzoni così ricche di disperazione personale che, soprattutto, facevano presagire il tragico finale della storia: davvero in pochi rimasero infatti sorpresi alla notizia del suicidio di Curtis, trovato impiccato in casa dalla moglie.

Sempre a Manchester, forse la città inglese più influente del decennio, pochi anni dopo la scomparsa di Curtis, inizierà a muovere i primi passi significativi un altro personaggio fondamentale per capire l’incertezza emotiva di una generazione che non riusciva a riconoscersi in nessuna delle ideologie dei propri genitori, Steven Patrick Morrisey. L’infanzia del futuro leader degli Smiths non è traumatica come quella di altri autori della sua generazione, ma dopo il divorzio dei genitori le sue capacità di confrontarsi col mondo esterno vennero così compromesse da farlo chiudere in se stesso prima ancora che tra le mura della propria casa. Suo malgrado, questo periodo di isolamento, trascorso per lo più leggendo in modo ossessivo, sarà determinante per la futura personalità di Morrisey, che proprio qui inizierà a capire di possedere doti autorali non comuni e finirà per identificarsi spesso con gli scrittori di cui era diventato accanito lettore. A differenza di molti dei gruppi dello stesso periodo, convinti che l’unico modo per esprimere il proprio disagio nei confronti della complessità di un’epoca culturale e storica così specifica come quella dell’Inghilterra di Margaret Tatcher fosse quello di puntare su una sperimentazione spesso ostentata, gli Smiths diventarono una sorta di megafono generazionale attraverso strutture vocali e musicali melodiche e pulite, mostrando che si poteva bacchettare la società anche senza sbraitare a tutti i costi. La poetica di Morrisey non traeva ispirazione solo dalle numerose letture, ma pescava tanto nel passato musicale di artiste come Marianne Faithfull, quanto nel presente più ambiguo e lascivo di band Glam come i Roxy Music e il Bowie più androgino, ma soprattutto i New York Dolls, uno dei sui più grandi punti di riferimento insieme a Marc Bolan e i suoi T-Rex. Il resto lo farà l’incontro col movimento Punk, avvenuto come per molti coetanei con l’incontro con i Sex Pistols, ma dal quale si distanzierà molto in fretta, trattandolo spesso con ironia e sarcasmo tipici della sua personalità. L’incontro che cambierà il suo destino e quello della musica britannica è quello con Johnny Marr, un altro figlio di immigrati irlandesi, cresciuto musicalmente in modo molto classico imparando a suonare la chitarra sulle note di band come i Byrds, i Rolling Stones e Neil Young: i due scoprono immediatamente di avere diverse affinità e di possedere una visione musicale comune, che da lì a poco darà vita a quel suono chiamato poi jingle-jangle che caratterizzerà tutta la loro opera e segnerà per sempre la storia della musica. L’approdo alla giovane etichetta Rough Trade e il primo singolo Hand In Glove arrivano poco dopo e, oltre a permettere al gruppo di collezionare una serie di performance prestigiose tra cui un’incendiaria esibizione da John Peel Session, scatenano le prime di una lunga serie di polemiche per via di un testo ambiguo che pare giocare con tematiche omosessuali e della copertina che ritrae un uomo nudo di spalle. Noncurante dei continui attacchi, la band prosegue a testa bassa pubblicando una serie di singoli scala classifiche come This Charming Man e What Difference Does It Make?, cui seguono le prime trionfali apparizioni televisive a Top Of The Pops. Nel giro di tre anni, a partire dal debutto omonimo fino ad arrivare a Strangeways, Here We Come e passando per il capolavoro The Queen Is Dead, gli Smiths furono in grado di diventare i portavoce più credibili di un sentimento di insofferenza nei confronti delle politiche sociali ed economiche britanniche, creando alcune delle storie più originali mai scritte e riaggiornando allo stesso tempo quella forma canzone che aveva caratterizzato l’opera di band come Beatles, Byrds e Kinks. Pur essendo spesso stati sottovalutati dalla stampa di settore, più attenta agli atteggiamenti ambigui e talvolta contraddittori di Morrisey, gli Smiths ebbero invece da subito un impatto sulla cultura britannica la cui onda lunga finì per influenzare in maniera determinante tutto il movimento Brit Pop che, sempre a Manchester, negli anni novanta vedrà nascere i suoi più illustri rappresentanti, gli Oasis, oltre a proseguire senza sosta nel tempo.

Nello stesso periodo, a Blackpool, sempre in Inghilterra, un altro ragazzo presenta molti tratti in comune con Ian Curtis: il suo nome è Robert Smith, suona la chitarra, scrive, ama cantare e ha appena fondato i Cure. In comune con Curtis Robert non ha solo l’amore per un certo tipo di letteratura e di musica minimalista, ma anche un’attitudine spiccata alla decadenza, alla malinconia e ai testi introspettivi e disperati. Sono però molte anche le differenze di personalità tra i due: Smith ha infatti un carattere scisso tra una parte più vulnerabile e sensibile e l’altra risoluta, incapace di abbandonarsi a se stesso e spesso molto pieno di sé. Questo mix farà sì che egli resti l’unico membro sempre presente nel gruppo, che nei decenni vedrà alterne fortune e numerosi cambi di sonorità, sempre però all’insegna dell’onestà intellettuale e senza cedere mai alle lusinghe della fama fine a se stessa. Anche il background culturale e musicale di Nicholas Edward Cave, detto Nick, non si discosta di molto da quello dei coetanei, così come l’infatuazione spiccata per il punk, che nel suo caso si svilupperà nella brillante esperienza degli eccentrici e sgraziati Birthday Party. Fin dagli esordi, tuttavia, Cave mostra di non amare gli schemi, tanto meno quelli di un genere che aveva fatto della mancanza di regole uno dei propri cavalli di battaglia: l’esperienza dei Birthday Party è infatti punk solo nell’anima, tanto è difficile inserire in un genere una tale accozzaglia di suoni, che stravolge un po’ tutte le regole fino a sfiorare in più di un’occasione la cacofonia. È però negli anni a venire, con la fondazione dei Bad Seeds che tutte le anime di Cave confluiranno con tutte le loro contraddizioni: le sue ossessioni nei confronti di religione, morte e violenza, il suo desiderio di stravolgere il blues fino a renderlo irriconoscibile e i suoi cambi repentini di stile e sonorità, ma soprattutto la sua capacità di esplorare gli abissi della mente fino ai confini con la follia, lo eleveranno a cantautore più influente a cavallo tra gli anni ottanta e il decennio successivo e album come The Firstborn Is Dead, From Her To Eternety e Your Funeral, My Trial, sempre in grado di terrorizzare e illuminare, sconcertare e commuovere restano tra i più significativi della storia del rock.

Il caso più eclatante e sorta di anello di congiunzione tra le svariate anime della musica underground americana dell’inizio del decennio, resta tuttavia senza dubbio quello dei R.E.M. La storia della band originaria di Athens rimane forse la più importante e significativa di tutta la musica indipendente, perché in grado di rappresentare il vero spartiacque tra ciò che fino ad allora veniva considerato mainstream e gli altri circuiti e che da lì a pochi anni porterà le grandi case discografiche a trasferirsi in quel di Seattle per sfruttare l’ennesima gallina dalle uova d’oro. A partire dal 1983, con un sound ancora acerbo ma già portatore in nuce di tutto quello che sarebbe venuto da lì a poco, e nell’arco meno di dieci anni i R.E.M. sono stati in grado di passare dal circuito del college rock ad uno dei contratti più stratosferici della storia, senza mai cedere alle pretese del mercato e finendo per definire virtualmente l’espressione “rock alternativo” degli anni ottanta. Se Murmur, acclamato come una delle uscite più sconvolgenti di quel periodo, vedeva la voce di Michael Stipe ancora in secondo piano rispetto alla parte musicale e dei testi al limite dell’incomprensibilità, sconvolgente fu la maturazione pop che la band subì nel giro di pochissimi anni, arrivando in tempi record ad una formula quasi perfetta in grado di unire musica anni sessanta, power pop e un intero decennio di musica indie. Proprio all’alba del nuovo decennio, dopo il successo di Document e di un pezzo virale come It’s The End Of The World, la chiamata della Warner: da lì in poi la musica indipendente non sarebbe stata più la stessa.

Un cenno doveroso va infine fatto nei confronti di una delle figure più sottovalutate dell’intero decennio: Jeffrey Lee Pierce e i suoi Gun Club. Di band che non sono state in grado di ottenere in vita il successo che meritavano è piena la storia del rock, basti pensare ad esempio ad una vicenda eclatante come quella dei Ramones, ma il caso dei Gun Club resta forse uno dei più incomprensibili in assoluto. Figlio del punk, ma con un amore viscerale per il blues del delta, Pierce inizia a scrivere brani spinto dall’infatuazione per band come i Blondie e per i coetanei Cramps, mostrando da subito doti di songwriter dalla sensibilità spiccata e completamente fuori dagli schemi classici. I suoi album, così sofferti e ricchi di novità e freschezza, uniti a testi lucidi e a un’evidente attitudine punk sono tra le cose migliori uscite nel decennio. Purtroppo, una fragilità estrema, esasperata dall’abuso di eroina ed alcol, porterà Pierce all’autodistruzione, che culminerà nella tragica morte a soli trentasei anni. La sua influenza fu fondamentale tanto per i suoi coetanei che per chi si mise a fare musica in seguito: se non ci credete provate a chiedere a gente come Nick Cave e Mark Lanegan…