Auguri, Caro Iggy

A differenza di molti coetanei, invecchiati più o meno bene, la figura di Iggy Pop resta una delle poche a non aver perso nemmeno un briciolo di quella coerenza che l’ha reso una delle icone assolute della storia del rock.

Quando, nel 1975, Iggy si trovava rinchiuso in un ospedale psichiatrico, senza amici, parenti, casa discografica o locali che volessero avere a che fare con lui e le sue abitudini che, da pericolose, si erano trasformate in totalmente fuori controllo, nessuno a Los Angeles avrebbe scommesso un centesimo sul compimento del suo trentesimo compleanno. Certo, i fatidici ventisette dell’idolo Morrison erano passati, ma la sua ombra continuava ad aleggiare pericolosa sulla sua testa, come testimoniato dai tentativi di qualche anno prima di Ray Manzarek di farlo diventare il nuovo frontman dei Doors. Ai tempi, l’unico ancora convinto di poter tirare fuori qualcosa da quell’uomo che era punk più Syd Vicious dieci anni prima che l’ondata del do it yourself invadesse il mondo, restava David Bowie. Era lui l’unico ad andarlo a trovare (e a portargli la droga) tra le corsie di una clinica che avrebbe dovuto aiutarlo in primis a superare i deliri da abuso di sostanze. Così come, un anno dopo, fu ancora Bowie a scrivergli per metà e produrgli The Idiot, ad oggi uno dei dischi più influenti di tutti gli anni settanta (molto di più del successivo e più blasonato Lust for Life). Ma in pochi si ricordavano che lo stesso Bowie, e soprattutto il suo alter ego Ziggy, a Iggy doveva moltissimo: prima ancora che il Vecchio Continente scoprisse chi fossero gli Stooges, Bowie in svariate interviste indicava in Iggy il suo cantante preferito, ammettendo di aver utilizzato il suo nome e le il suo modo di stare sul palco per creare il suo personaggio più noto.

Caduto e rinato mille volte, come si conviene a tutti i grandi personaggi della storia del rock, James Newell Osterberg Jr. oggi è più credibile che mai oggi, aiutato non solo dal semplice status di sopravvissuto, ma da uscite discografiche che sembrano migliorare col tempo, sempre più mature ma sempre profondamente contro.

Quando oggi si guarda Iggy Pop dimenarsi su un palco, l’unico segno dello scorrere del tempo resta forse la pelle che inizia a penzolare sotto i muscoli ancora tonicissimi. Tutto il resto, il fascino malsano, gli occhi spiritati, la voglia di provocare, insomma ogni aspetto della sua figura mitologica, continua a stupire e, seppur non come alla fine degli anni sessanta, a turbare profondamente. Pensare che tra tutti quelli che gli sono passati affianco, lui sarebbe riuscito a tagliare il traguardo dei settant’anni in questo modo, francamente, era davvero difficile da immaginare. Quello che dobbiamo accettare è che Iggy, che di quella ideale trilogia che lo vedeva al fianco di Lou Reed e David Bowie, sembrava il più istintivo, il meno colto e quello destinato a finire prima, era invece una delle menti più brillanti della propria generazione che aveva deciso semplicemente di dare totale libertà al proprio wild side, proprio come invitava a fare l’amico Lou.

Auguri Iggy e grazie di essere ancora tra noi, anche perché mi ero un po’ rotto i coglioni di scrivere necrologi. Confidando sul fatto che ci seppellirai tutti.