The Darkness: Justin Hawkins Parla Di Pinewood Smile

Chi aveva dato i Darkness per finiti dopo il secondo album e lo scioglimento che aveva diviso i fratelli Hawkins, non aveva fatto i conti con la voglia di rock n’ roll che ancora pervadeva l’animo di ognuno dei membri del gruppo. Dalla reunion in poi, ogni album ha aggiunto qualcosa ad un sound sempre riconoscibilissimo, ma che si è via via aperto anche a nuove sonorità. Abbiamo parlato del nuovo Pinewood Smile con un simpaticissimo Justin Hawkins.

Justin, vorrei partire immediatamente dalla copertina, che sembra una sonora presa in giro nei confronti degli ultimi trent’anni di arti grafiche…

“(Ride, ndr). Infatti lo è! Mi sono piaciute molto le copertine degli album post reunion, ma avevano sempre un non so che di sbagliato, che non mi faceva essere completamente soddisfatto. Graficamente sono ineccepibili e mantengono quello stile fumettistico che ci caratterizza fin dall’esordio, ma mi sembravano addirittura troppo serie. Quindi ho parlato con i nostri collaboratori, che mi hanno risposto: ok, fai un disegno, qualsiasi disegno e lo faremo diventare la copertina dell’album. Non credevo l’avrebbero fatto davvero (ride, ndr). Ecco quindi come è nato l’artwork che vedi. La mia idea era quella di unire due mondi, quello inglese da cui proveniamo e quello americano, più kitsch e di grana grossa, due culture per mille aspetti completamente differenti, ma che sentiamo nostre allo stesso modo.”

Intanto continuo a leggere dichiarazioni in cui parli di album migliore di sempre. Altra presa in giro o sei caduto nel più classico dei cliché?

“Lo so, hai ragione, lo dicono tutti, ma loro mentono, io dico la verità. Molto semplice (ride, ndr). A parte le stronzate, credo che ogni album dei Darkness, ma credo che la cosa si possa estendere in generale a tutte le band, sia parte di un percorso. A volte i percorsi si interrompono anche e non per forza con uno scioglimento. Una cosa che mi ha colpito e che ha colpito subito tutti, è che abbiamo risentito molte cose del debutto: certi riff, il registrare diverse canzoni in presa diretta, cosa che era praticamente svanita nel nulla dal secondo album, le melodie che rappresentano un po’ il trait d’union della nostra carriera. Odio le band che a un certo punto cercano di incidere nuovamente l’album migliore che hanno pubblicato, quasi a replicare una formula, quindi non avrei mai pubblicato una fotocopia del disco di debutto, ma a conti fatti c’è un ponte evidente tra l’inizio e la fine.”

Rufus Taylor viene considerato quasi all’unanimità il batterista perfetto per voi. Che ruolo ha avuto in fase di songwriting?

“Rufus è entrato davvero in punta di piedi nella band e, pur non avendoci suonato in studio, è il nostro batterista ormai da due album a questa parte. Il suo arrivo ha dato una sferzata totale di energia al nostro songwriting, perché ha portato nel gruppo una certa spinta verso la modernità che a noi mancava quasi del tutto. Se ci fai caso, se vai ad ascoltare i vecchi dischi, questa cosa è lampante. Noi abbiamo sempre ragionato in termini di rock classico e, sostanzialmente, abbiamo sempre composto con quel mondo in testa, tanto quello inglese che quello americano. Lui, invece, pur arrivando da una famiglia che un certo contributo a quel rock l’ha dato (ride, ndr), è completamente privo di preconcetti di qualsiasi tipo. Ama band come i Foo Fighters, quindi diciamo che tra il padre, Dave Grohl e Taylor Hawkins, qualche punto di riferimento di livello ce l’ha (ride, ndr)”.

Solid Gold mi sembra già un classico, così come la ballata Why Don’t The Beautiful Cry. Pensi a questi brani quando parli di ponte con Permission To Land?

“Sì, ma non solo. Credo che il mood sia nel complesso molto simile. Solid Gold credo funzionerà molto bene dal vivo, sono quei classici brani che la gente ama subito perché li riporta indietro ad un certo periodo, ad un rock n’ roll senza fronzoli, dritto e suonato. L’altra è una ballata in classico stile Darkness, con quelle armonie che amiamo e quell’attitudine eighties che abbiamo sempre avuto e che può ricollegarsi un po’ a brani come Love Is Only A Feeling. Poi, per esempio, ci sono brani più sperimentali, per così dire, come Lay Down With Me, Barbara o Southern Trains. In generale, credo sia l’album di una band matura, che ormai esiste da quasi quindici anni e che ha già vissuto cose che altre band vivono in quaranta. Questo è un valore aggiunto, oltre al fatto di essere sostanzialmente così trasversali da poter aprire a Lady Ga Ga, i Metallica e i Guns N’ Roses. Conosci altre band che potrebbero riuscirci?”.

Uno dei pezzi che mi ha colpito di più è Japanese Prisoner Of Love. Un brano che potrebbe essere un outtake di Queen II…

“Non devo spiegarti il mio amore per i Queen, ne abbiamo parlato a lungo anche in passato. Amo alla follia il periodo con Roy Thomas Baker in produzione e, quando si realizzò il sogno di essere prodotti da lui (One Way Ticket To Hell…And Back ndr), eravamo tutti al settimo cielo. Il rimpianto più grosso sta nel fatto che ai tempi credo di essere stato il peggiore stronzo da incontrare sulla propria strada, tanto che a volte mi devono raccontare gli altri alcune mie azioni, perché nemmeno mi ricordo di averle compiute. Un sacco di merda ho accumulato in quel periodo. Japanese Prisones Of Love è un pezzo che Baker avrebbe amato produrre, con tutte quelle sovraincisioni, i cori e tutti quegli elementi ultra Queen. Sì, devo ammettere che si tratta di un brano davvero legato all’amore per il gruppo, per la sua versione dei primi anni settanta, in particolare.”

Cosa ha significato per voi aprire per i Guns?

“Bè, chi della nostra generazione non è cresciuto con quella roba? I Guns sono stati l’ultima grande band classica, con un’attitudine che arrivava dritta dritta da un’epoca che aveva reso il rock una delle forme d’arte più importanti del novecento. C’è un mucchio di gente che continua a dire che comunque si tratta solo di musica e che quindi non andrebbe data troppa importanza a cose del genere, poi magari passa le serate a guardare il Grande Fratello per non pensare a tutta la merda che lo circonda. Io continuo a preferire un buon disco e ho accettato che intorno a me vivano una serie infinita di coglioni. Una volta mi chiedevo come fosse possibile, poi un amico mi disse: hey Justin, non hai ancora accettato che siamo circondati da stronzi? Inoltre il vostro Paese, come successo ad altre band nella storia, ci ha preso davvero a cuore e a Imola abbiamo capito che la gente fosse lì anche per noi.”

Tra l’altro ci eravate già stati nel 2006 in apertura ai Metallica che celebravano Master Of Puppets. Quella volta forse fu più difficile conquistare la platea. O no?

“A Imola eravamo già stati? Non ricordo assolutamente di esserci stato prima in vita mia, ma se mi dici che era il 2006 mi spiego tutto: come ti raccontavo poco fa, ho pochissimi ricordi legati a quel periodo e quei pochi fanno tutti schifo (ride, ndr). Per quanto riguarda l’accoglienza del pubblico, come ti dicevo, abbiamo sempre avuto la capacità di arrivare ad avere dei fan davvero trasversali, in grado di comprenderci nella nostra totalità. Certo, per lo zoccolo duro dei fan dei Metallica forse risultiamo un tantino indigesti, ma a tutti quelli che riescono a guardare oltre il thrash siamo arrivati senza problemi. Tra l’altro i Metallica sono una delle band migliori con cui andare in tour, da ogni punto di vista. Siamo stati moltissimo in giro con loro, anche nei primissimi anni, quindi siamo molto legati umanamente a loro.”