Queensrÿche: Parla Geoff Tate

A due anni di distanza dal concept “American Soldier”, i Queensrÿche tornano sul mercato discografico con il sorprendente “Dedicated To Chaos”, un album farà parlare nuovamente della band americana, se non altro per il quasi totale abbandono delle sonorità hard dei tempi che furono. Pur non rinnegando completamente il proprio passato, la band sembra sempre più indirizzata verso lidi consoni più a band come gli U2 che ai Rush, cui spesso vennero affiancati nel corso degli anni. Chi ama il gruppo sa però che a Geoff Tate e soci non è mai piaciuto ripetersi e chi, ascoltando il nuovo lavoro, ripenserà a quell’ “Empire” che tanto fece discutere, si ricordi che il tempo è la migliore cura per tutto. Lo stesso Tate, cordiale e amabile come sempre, ha provato a spiegarci i motivi celati dietro un album così particolare…

Bastano pochi ascolti per capire quanto “Dedicated To Chaos” sia un album che spiazzerà nuovamente i vostri fan…

Probabilmente ormai i nostri fan sono così abituati al fatto che li spiazzeremo, da non essere nemmeno più una sorpresa per loro. Dovremmo iniziare a fare album fotocopia per spiazzarli sul serio (ride).

A parte gli scherzi, dopo il primo ascolto riesce difficile pensarvi ancora tra gli scaffali di musica heavy metal! Alcuni brani sembrano uscire da un album degli U2.

Quello che mi fai è un grande complimento. Sono sempre stato un ammiratore degli U2 e di certe sonorità in generale. Sai, quella di band “metal” è un’etichetta che ci è stata affibbiata. I discografici o chi lavora nel settore non è come il pubblico, in grado di ascoltarti solo per quello che proponi. Deve catalogarti, inserirti in un genere e di sicuro noi nasciamo come band più pesante di quello che forse siamo ora. Non è rinnegare, si tratta semplicemente di evoluzione. Non potrei fare sempre la stessa cosa, mi annoierei.

Infatti il disco stesso è molto variegato. Passate con estrema facilità da atmosfere prog, a brani più pesanti passando per il pop e l’elettronica. Si tratta di un concept album come il precedente “American Soldier”?

No, questa volta non esiste un filo conduttore. E’ una semplice raccolta di canzoni, alcune scritte poco dopo quelle del nostro disco precedente, altre anche pochi giorni prima di registrare l’album. Mi piaceva l’idea del caos, che ormai fa parte di ogni aspetto della nostra vita, tanto che spesso quando cerchiamo di mettere ordine, iniziano le difficoltà! Se avessimo fatto un altro concept avrebbero iniziato a paragonarci agli Who (ride). Di sicuro è un album in cui il lavoro sulla sezione ritmica è davvero notevole, quasi predominante sul resto. Inoltre quel pizzico di elettronica ha reso il tutto più movimentato, quasi ballabile in un certo senso.

In effetti le parti di basso e batteria sembrano predominanti sul resto delle partiture. E’ stata una scelta nata a tavolino o per puro caso?

Sai, ogni album nasce da un’idea o da una serie di idee alle quali poi si attacca tutto il processo creativo: può essere un riff, un testo particolare o lo stato d’animo di qualcuno di noi al momento della composizione. Questa volta l’input è nato dai pezzi che Scott (Rockenfield) e Eddie (Jackson) hanno messo sul tavolo all’inizio della lavorazione dell’album: erano brani scritti nel corso dell’ultimo anno e dal sound molto diverso dai nostri strandard. La cosa mi ha intrigato subito e mi sono calato completamente nella parte. Sono consapevole del fatto che molti non capiranno l’album proprio per via della direzione musicale intrapresa.

In ogni caso, non vorrai essere etichettato come metallaro, ma in tour coi Judas Priest non ci vai se ti chiami Britney Spears!

Ah di certo no (ride)! Non fraintendermi, noi nasciamo assolutamente come band metal, se pensi ai nostri esordi capisci di cosa sto parlando. Col tempo abbiamo solo inserito elementi musicali che si sposassero con la nostra voglia di evolvere, coi nostri gusti. Quando ci è stato chiesto di suonare prima dei Judas Priest siamo letteralmente impazziti: sono stati un punto di riferimento assoluto per chiunque abbia iniziato a suonare questa musica e lo sono tutt’ora! Per i concerti con loro, in ogni caso, abbiamo potuto suonare solo un’ora, quindi niente sorprese dance per i nostri fan (ride).

Un filo conduttore in realtà nell’album lo si può trovare: la tua splendida voce. Sembra non perdere mai un minimo della sua potenza col passare degli anni. Qual è il tuo segreto?

Non è che abbia segreti inconfessabili! In realtà ho sempre tenuto molto alla mia salute in generale, quindi ho sempre cercato di evitare gli stravizi tipici della nostra professione. Qualche volta magari ho avuto delle difficoltà (ride), ma in generale ce l’ho fatta. La mia fortuna è stata quella di iniziare a studiare molto presto, cosa che ha preservato in modo sostanziale le mie corde vocali dai danni tipici degli autodidatti. Molti colleghi hanno iniziato a fare esercizi solo in tarda età, quando ormai alcune cose erano compromesse. Mangiare bene e dormire molto sono altri piccoli toccasana per chi come me con la voce ci lavora.

Il disco è prodotto ancora da Kelly Gray, ormai è quasi un membro della band. Si nota una cura maniacale per il suono, pare quasi un prodotto per audiofili.

Sì ormai Kelly è un punto di riferimento fondamentale per il nostro lavoro, oltre che un professionista impareggiabile. Abbiamo puntato molto sull’aspetto del suono e mi fa piacere che si noti. Abbiamo pensato in particolare all’ascolto tramite le cuffie, perché ormai il fruitore musicale medio non si mette più in una stanza ad ascoltare il proprio hi fi, ma lo fa proprio tramite cuffie. Se infatti provi ad ascoltare l’album in entrambi i modi, sentirai differenze sorprendenti. Non ti parlo solo della percezione di alcuni particolari che magari possono sfuggire, ma dell’intero mood del disco.