Gogol Bordello: Parla Eugene Hutz

Eugene Hutz non è un personaggio come gli altri e ogni sua intervista lo dimostra meglio di qualsiasi retrospettiva o tentativo di analisi. In occasione della venuta in Italia dei Gogol Bordello, siamo riusciti a strappargli qualche battuta. Come di consueto, mai banale…

A più di dieci anni dal debutto, nel nostro paese l’attenzione nei confronti dei Gogol Bordello pare non vedere cedimenti. Chi vi considerava un fenomeno passeggero non aveva compreso appieno la portata della vostra proposta…

Sinceramente, non saprei cosa dirti. Se invertissimo i termini della questione, potrebbe anche essere che quelle persone fossero le uniche ad aver capito che la nostra musica non valesse poi così tanto. Quindi potrebbero essere gli unici ad averne davvero compreso la portata. A parte l’ironia, il numero di concerti in Italia è andato ogni anno aumentando, mentre altri paesi, una volta conclusasi l’infatuazione per la musica di questo tipo, hanno finito per perdere interesse per tutto quello che vi girava intorno, noi compresi. Non credo sia un caso che una cultura come quella italiana, così legata ai propri dialetti, alle proprie tradizioni e aperta a quelle degli altri, ci accolga ogni volta come compagni di viaggio e spiriti affini. Non a caso da qualche anno l’America Latina è diventata la mia patria: queste ormai solo le uniche popolazioni con potrei resistere per più di dodici mesi.

Cosa rispondi a chi ormai tratta i vostri album come semplici pretesti per fare quello per cui sembrate essere nati, suonare dal vivo?

Intanto direi loro di ascoltare le cose di cui poi vogliono parlare…Dopo di che sono apertissimo al dialogo: ho scritto cose più o meno belle ed alcune che, riascoltate oggi, mi fanno completamente schifo, ma non sopporto gli stereotipi. Quindi mi sono un po’ stancato delle definizioni prestampate, del sottolineare in continuazione che il nostro spettacolo assomigli ad una sorta di circo e a tutte le cose di questo genere in cui ti sarai sicuramente imbattuto se hai letto almeno un articolo che parli dei Gogol Bordello. Il problema è che la gente parla senza mai conoscere l’oggetto della discussione. Questi sono gli stessi soggetti che quando mi intervistano mi chiedono se in studio mi preoccupo di come un pezzo sarà poi suonato dal vivo oppure no…Ma cazzo, penso di non aver mai registrato un brano in studio che non fosse dal vivo!

Quindi non ti sentirò mai nemmno dire che Pura Vida Conspiracy sia il vostro album migliore di sempre…

Certo che no, sarei un pazzo furioso a farlo, anche se lo pensassi davvero. Continuo a leggere le stesse interviste con le stesse risposte che mi annoiano dopo pochi minuti di lettura, quindi non sopporto le risposte di quel tipo. Chi parla con me, per esempio, è sempre impegnato a farmi vedere di conoscere la cultura gitana, piuttosto che a dimostrarmi di essere stato a un mio concerto a tutti i costi per risultare più credibile. Tanto poi chi è stato davvero toccato da quello che scrivo viene fuori in pochi secondi. Credo che Pura Vida Conspiracy sia molto legato all’album precedente, anche se penso che i miei testi siano stati profondamente influenzati dal fatto di aver vissuto in Brasile per diversi anni e anche dal punto di vista musicale è innegabile l’influenza di questi territori. Non puoi vivere qui e rimanere la stessa persona e lo stesso artista, non ho ancora conosciuto nessuno in grado di farlo.

Sei l’unico artista in grado di affermare che la maggior fonte d’ispirazione di un album sia l’album stesso. Un modo per prendere per i fondelli chi ti parla o cosa?

Assolutamente no! Quando dico che la maggior fonte di isprazione per i testi di Pura Vida Conspiracy sono stati proprio quei testi, dico una cosa molto semplice: io non scrivo di libri che ho letto, di film che ho visto o di vita di ogni giorno, io scrivo per immagini mentali che mi appaiono come veri e propri insight, come illuminazioni o flashback. Quando entriamo in studio nessuno di noi sa mai dove ci spingeremo musicalmente, così come nessuno conosce i miei testi. È una via totalmente sperimentale di comporre, che nasce di colpo da un’idea e da quell’idea poi si lascia trasportare per tutta la durata delle session. Ogni canzone influenza la successiva e questo meccanismo permette di trovare sempre il fil rouge di tutta la produzione.

Quando giunse la notizia della vostra collaborazione con Rick Rubin, in molti saltarono dalla sedia, convinti che la sua produzione sarebbe stata in grado di far emergere lati nascosti della tua creatività. Cosa non ha funzionato?

A dire il vero, ha funzionato tutto alla grande e avevamo già posto le basi per l’album successivo, poi un cambio di etichette ha impedito che la cosa andasse in porto. Si parla tanto di libertà ceativa, di collaborazioni che vadano oltre il mero tornaconto, ma alla fine è sempre una questione di fottuti interessi commerciali. Peccato, perché credo che Rubin fosse il produttore perfetto per questa nostra parte di carriera e perché da anni sognavo di lavorare con l’uomo che aveva ridato dignità e gloria ad un uomo come Johnny Cash. La sua grandezza sta nel convincerti che l’unica cosa che devi fare è essere semplicemente te stesso. Una banalità, ma a cui non siamo più abituati.

Hai parlato di Johnny Cash. Per quanto distante dalla tua proposta musicale, in qualche modo ho sempre pensato che tu rappresentassi una sorta di incarnazione gipsy di Joe Strummer e dello stesso Cash. Forse perché, al di là di tutto, la voce è ancora la prima cosa ad arrivare.

Sono lusingato e ti dirò che, quando parlavamo del mio rapporto con Rubin, la prima cosa a venirmi in mente è stata la versione di Redemption Song cantata proprio da loro due. Credo che quel brano, in quella particolare versione, rappresenti tutto quello che ho amato nella musica: un brano di Bob Marley cantato dalle figure che mi hanno influenzato di più nella mia vita. È quella la mia idea di musica: mi piace definirlo intrattenimento fatto col cuore. L’intensità di quelle due voci, con quella di Cash straziata dalla malattia e quel testo così pieno di speranza. Pensa che quando sono arrivato in America non conoscevo una parola d’inglese e ho imparato la lingua ascoltando le canzoni di Johnny Cash. Ti confesso che spero che, fra qualche anno, Rick mi telefoni dicendomi che non ho ancora inciso il mio album migliore e mi proponga qualcosa di simile alla serie delle America Recordings di Cash. Solo in quel caso ti direi che si tratta del disco più bello della mia carriera.