Ac/Dc – Rock Or Bust

Sebbene possa sembrare vero il contrario, recensire un nuovo album degli Ac/Dc non è proprio la cosa più semplice di questo mondo, soprattutto se parliamo degli Ac/Dc post Black Ice. Se ci limitassimo al riff e a leggere le prime strofe del brano che dà il titolo al disco e che allo stesso tempo ne segna l’inizio, la tentazione più immediata sarebbe quella di convincersi di avere tra le mani il classico album della band australiana: quadrato, autocelebrativo e senza fronzoli. Se poi si prosegue con l’ascolto, arrivando a quella Playball che come singolo onestamente non mi aveva entusiasmato, ma che su disco fa tutt’altra figura, i nostri pregiudizi potrebbero trovare ulteriore pane per i propri denti. Invece, proprio quando ti aspetti che il terzo brano confermi tutto ciò che hai sempre saputo, ecco che per la prima volta ti rendi davvero conto del fatto che Rock Or Bust sia il primo album a non vedere la presenza di Malcolm Young alla chitarra ritmica e, soprattutto, in fase compositiva. Se tralasciamo infatti brani come Rock The Blues Away o Dogs Of War, che potrebbero provenire direttamente dalle session dell’album precedente ed essere sorelle rispettivamente di Anything Goes e War Machine, quello che attende le orecchie dell’ascoltatore da qui alla fine del disco è forse il tentativo più esplicito da parte di Angus Young di suonare non proprio come tutti si aspetterebbero. Spiegamoci, niente di totalmente fuori dagli schemi, dall’animo e dalla storia del gruppo, ma senza dubbio qualcosa di diverso dagli innumerevoli cliché che da sempre accompagnano la compagine. È il caso, per esempio, di Miss Adventure che, nonostante un testo lascivo in chiaro stile Ac/Dc, appare fresca e per nulla scontata, così come Got Some Rock ‘N’ Roll Thunder, col suo incedere divertente e divertito che rimanda un po’ al mood del disco precedente e che forse mostra più di altre il lavoro fatto da Brendan O’Brien con la band. La vera gemma del disco, tuttavia, resta probabilmente Baptism By Fire, un brano che non trova davvero metri di paragone all’interno del canzoniere younghiano e che lascerà di sasso più di un fan di vecchia data. La novità più grande resta probabilmente la presenza insistita di riff molto articolati, in aperta antitesi con la storia della band e la cosa viene confermata anche da Rock The House, col suo incedere ultra classic rock che pare un omaggio di Angus Young a Jimmy Page e dalla conclusiva Emission Control, degno finale di poco più di mezz’ora che riesce in una delle imprese più imprevedibili del 2014: apportare delle novità stilistiche in un gruppo che per quarant’anni aveva fatto della coerenza e dei power chords il proprio marchio di fabbrica. Visti in quest’ottica, gli unici due brani dannatamente Ac/Dc, posti proprio in apertura di album, appaiono quasi come una grandissima presa in giro nei confronti di tutti quei critici che da anni sostengono di poter recensire un loro album dopo averne ascoltato un paio di canzoni…