Non era mai passato così tanto tempo tra due album da studio dei Def Leppard, tanto che in molti erano ormai convinti che l’ottimo Songs From The Sparkle Lounge non avrebbe avuto un successore. Invece, a sorpresa, ci siamo ritrovati a parlare con Joe Elliot dell’eponimo Def Leppard, sorta di album fotografico di una carriera.
Descriveste Songs From The Sparkle Lounge come scritto nello stile di Hysteria con una produzione simile a quella di High ‘n’ Dry. Come parleresti invece di Def Leppard?
“Quel disco fu segnato inevitabilmente e in maniera sostanziosa dal disco di cover che avevamo pubblicato qualche tempo prima. Se lo riascoltassi oggi, ti renderesti conto di quanto quell’album venne influenzato dalle sonorità dei brani che eravamo andati a ripescare. Def Leppard, invece, è una dichiarazione d’intenti pura e semplice: questi sono i Leppard oggi, ma allo stesso tempo puoi sentirci tutto quello che abbiamo fatto nel corso della carriera. Permettimi di dire che lo vedo come un album disomogeneo nel miglior senso possibile del termine: ci puoi sentire i Queen, gli Ac/Dc o i Led Zeppelin, oppure cose tratte da qualsiasi nostro album a caso. Ah, dimenticavo: questa volta ci puoi trovare persino sonorità alla Crosby, Stills & Nash (ride, ndr)!”
Diciamo che il primo singolo Let’s Go potrebbe essere stato recuperato da qualsiasi session del vostro periodo d’oro. Con i cori registrati pensando ai Queen…
“Non poteva che essere quello il primo singolo, oltre che quello in grado di aprire l’album al meglio. Possiede tutte le caratteristiche che hanno reso celebre il gruppo, dal ritmo bombastico al classico riff Leppard al cento per cento. È un po’ la Pour Some Sugar On Me del nuovo millennio (ride, ndr). Parlando di Queen, sai che con me sfondi una porta aperta: sono un fan pazzesco del gruppo, non l’ho mai nascosto e gli stessi Brian e Roger sono due miei grandi amici. È vero, nel sound di Let’s Go, non solo nei cori, c’è qualcosa che ricorda alcune delle loro cose anni ottanta. Ho sempre pensato ai Queen quando penso al modo di comporre un brano dei Def Leppard: credo che ci accomuni quella capacità di cambiare stile restando se stessi. A volte il pubblico ti segue, altre no. Loro, Ian Hunter e Bowie sono punti di riferimento continui.”
L’album esce in prossimità dell’anniversario della morte di Freddie Mercury. Nel 1992 suonasti sul palco del Tribute proprio insieme a Queen, Ian Hunter e David Bowie. Immagino sia un ricordo agrodolce.
“Purtroppo sì, nel senso che sarebbe stato bello che quella serata venisse ricordata solo per la quantità di stelle del rock presenti sul palco. Ricordo come fosse ieri il mix di sentimenti che convivevano in me, ma penso di poter parlare a nome di molti dei presenti: da una parte ti rendevi conto del fatto che mai si sarebbe potuta ripetere una cosa del genere, ma dall’altra eri così triste da rischiare di non avere la voce per cantare. Anche durante le prove si respirava un’aria che non saprei spiegarti a parole. Da parte mia, poi, stavo condividendo il palco con gente che mi aveva cresciuto: Robert Plant, David (Bowie, ndr) e appunto Queen e Ian. Ricordo l’esecuzione di All The Young Dudes come uno dei punti più alti della mia esistenza. Inoltre, quello resta l’ultimo concerto di Mick Ronson, una delle persone migliori che abbia mai frequentato e il musicista più sottovalutato della storia. Per quello ho voluto che il suo ultimo album si concludesse proprio con quella canzone. Conosci l’album?”
Sì, Heaven And Hull. Un disco che hai sempre sentito un po’ tuo, vero?
“Venni a sapere della morte di Mick mentre ero in tour con la band: quella sera suonammo una versione acustica di Ziggy Stardust in suo onore. Stavamo lavorando a quel disco da mesi, sapeva di avere il tempo contato, anche se era in grado di non farti mai sentire a disagio per via delle sue condizioni di salute. Quando venne a mancare, l’album non aveva ancora subito il processo di missaggio, molti brani erano ancora allo stato primitivo e troppe cose non suonavano come avrebbe voluto. Per il brano che cantai con lui, Don’t Look Down, ad esempio voleva ottenere un suono potente come quello delle canzoni dei Def Leppard, cosa che cercai di ottenere quando venni chiamato da sua moglie Carla per portare a termine i lavori. Lavorammo giorno e notte, c’era troppa gente che l’aveva amato e voleva che rimanesse un ricordo di lui formidabile: Bowie acconsentì persino all’idea di risuonare la sua parte di sax su All The Young Dudes, che a Wembely in pratica non si sentì.”
Tornando al nuovo album, tempo fa sembrava dovesse essere prodotto da Mutt Lange: la notizia aveva fatto balzare dalla sedia tutti i fan. Cosa è successo poi?
“In realtà, l’idea di tornare a collaborare con lui è nata un po’ di anni fa, ma non siamo mai arrivati a concretizzarla. Questa è stata la volta in cui ci siamo andati più vicini: credo che Ronan McHugh (produttore dei loro ultimi album, ndr) sia la persona migliore per noi in questa parte della nostra carriera, perché è riuscito a farci recuperare la bussola persa nella seconda metà degli anni novanta. Tuttavia, Lange è legato a noi in maniera indissolubile e sarebbe bellissimo producesse ancora qualcosa con noi. L’idea, in realtà, era quella di produrre una manciata di brani di Def Leppard ed eravamo anche già d’accordo su quali, ma non siamo riusciti a far coincidere le tempistiche di entrambi. Ci siamo comunque ripromessi di farlo in futuro, per vedere cosa possiamo ancora fare insieme dopo tanti anni. Lo stesso Ronan era eccitatissimo all’idea di produrre qualcosa insieme a una leggenda come lui.”
Perché abbiamo dovuto aspettare così tanto per ascoltare qualcosa di nuovo da voi? Vi costa più fatica scrivere pezzi rispetto al passato?
“Ma sai, tutti pensano che uno si mette ad una scrivania e inizia a scrivere una canzone solo perché sono passati un paio d’anni dall’ultimo disco. Tutto è cambiato col tempo, tanto la situazione socio economica, quanto quella interiore di ognuno di noi. Quindi è impensabile che tutto rimanga invariato. Dopo Songs From The Sparkle Lounge abbiamo fatto due anni di tour, cui è seguito Mirror Ball, che conteneva tre inediti. Poi abbiamo deciso di celebrare Hysteria e risuonare tutto quell’album ha acceso qualcosa dentro di noi. Ci siamo così ritrovati in studio per vedere cosa avremmo potuto fare, magari per pubblicare un EP di tre tracce. Ci sembrava che la soluzione utilizzata proprio in Mirror Ball fosse la migliore in un momento discografico così complicato. Improvvisamente, invece, ci siamo ritrovati con dodici canzoni pronte e altre due nate nel giro di altre due settimane. È il primo album che facciamo senza la supervisione, la pressione di qualcuno ed è stato fantastico: libertà estrema. Penso che i fan lo noteranno nelle canzoni.”
La disomogeneità di cui parlavi prima è frutto proprio di questa libertà creativa che si è venuta a creare in studio?
“Credo di sì, ma solamente in parte. Di sicuro l’assenza di vincoli e pressioni esterne è una delle cose che aiuta maggiormente in fase di songwriting, ma qui il discorso è più ampio. Anche alla fine degli anni ottanta nessuno si permetteva di dirci come lavorare in studio, perché eravamo le loro galline delle uova d’oro: le pressioni, però, ce le creavamo da soli, perché quando arrivi così in alto sai che la caduta potrebbe essere devastante. Ora, invece, non abbiamo più nulla da dimostrare e anche in quanto a cadute siamo più che vaccinati: ora sì che non abbiamo davvero più inibizioni. Il motivo principale della varietà di stili, quindi, credo stia più che altro nel fatto che molte canzoni sono nate da ognuno di noi individualmente e altre come gruppo: questo fa sì che ogni canzone rispecchi i gusti musicali di ognuno di noi. Non credo che scrivere come gruppo sia un valore aggiunto rispetto ad avere un preponderanza di brani scritti da singoli membri: la storia del rock insegna proprio il contrario.”
Quanto ha influito sulla realizzazione del disco il fatto di non avere un contratto al momento dell’ingresso in studio?
“Credo sia uno dei segreti dietro alla freschezza compositiva che ha invaso la band una volta entrati in sala di registrazione. Si è trattata di una situazione completamente inedita per noi in quarant’anni di carriera: nemmeno ai tempi del primo album si venne a creare una situazione di questo tipo, perché allora fummo scoperti dalla casa discografica durante i nostri concerti. Quindi, quando iniziammo a registrare il debutto, avevamo le spalle ben coperte da quel punto di vista. Il contratto con Universal finì nel 2008 e quelli successivi erano finalizzati solo alle pubblicazioni dei due dischi di cui parlavamo prima. Un tempo dovevamo registrare album in poche settimane perché uno studio costava moltissimo, non per forza di cose per il fatto che l’ispirazione fosse maggiore. Questo è uno dei grandi equivoci del rock: alle volte avresti voluto avere più tempo per lavorare a certe idee ma i costi erano troppo elevati.”
Cosa rispondi a chi ritiene che i Def Leppard siano una di quelle band che fa sempre lo stesso disco da trent’anni, come Motörhead o Ac/Dc?
“Francamente, mi sembra una grandissima cazzata. Ti dirò di più: gli Ac/Dc credo siano uno dei miei gruppi preferiti in assoluto, chiunque nella band è un super fan del gruppo di Angus Young, ma trovo davvero assurdo semtirmi dire certe cose. È vero, per un certo tipo di canzoni come Animal, Rock Of Ages o Pour Some Sugar… siamo assolutamente un gruppo di quel tipo: nessuno le può fare bene come noi e quando le senti alla radio non puoi avere dubbi, ma soprattutto noi in primis ci divertiamo da matti a comporre e suonare in quel mood. Dire, però, che facciamo album tutti uguali è ridicolo! Al di là di questo lavoro, dove davvero puoi sentirci persino delle influenze dalla musica di Lenny Kraviz, è assurdo non vedere la differenza: hai mai sentito una ballad da Lemmy o dagli Ac/Dc? O che ne so, un cambio di tempo? Ripeto, sono gruppi che amo alla follia, lo dico solo per rispondere a una questione che da tempo mi fa ridere.”
Vedervi in Italia è ormai un’utopia e, in ogni caso, la sensazione è ancora quella che siate sempre più idonei ad un mercato come quello americano…
“Questa è una cosa davvero strana, ma che ormai dura da decenni. Dico che è strana perché, se penso a tutte le band che ci hanno influenzato, mi vengono in mente quasi solo nomi inglesi: Mott The Hoople, Queen, Led Zeppelin, David Bowie. A pensarci, in effetti, sono anche gruppi che in America hanno spopolato, ma forse hanno mantenuto per sempre un legame più stretto con l’Europa rispetto a noi. Forse perché in molti associano la nostra carriera a quella di una band come i Bon Jovi, che partirono con un sound quasi metal per finire poi a diventare dei Re Mida delle ballatone hair metal. Qualcosa di simile agli Aerosmith di fine anni ottanta, insomma. Mi ricordo un aneddoto a riguardo: un manager che cercava di conquistarsi i nostri servizi e di cui non farò il nome, molti anni fa, parlandomi della virata degli Whitesnake verso il mercato statunitense, mi disse che avevano puntato a diventare i Def Leppard inglesi. Capii che non avrebbe fatto un gran lavoro per noi (ride, ndr).”
Questo per dirmi velatamente che salterete di nuovo il nostro paese col tour mondiale?
“Credimi, quella dell’Italia resta una ferita narcisistica enorme per me. Ero persino convinto che fossimo passati con Songs From The Sparkle Lounge, ma ora che me l’hai detto, ricordo di esserci stato l’ultima volta nel 2006 in un festival (Gods Of Metal, insieme a Motörhead e Whitesnake, ndr). Come saprai bene, non siamo noi a decidere dove suonare e dove no, nel senso che non si tratta di preferenze o cose di questo tipo, ma dispiace sapere dai promoter che da voi potremmo suonare solo in locali di un certo tipo e non in luoghi più consoni alla nostra storia e agli show che presentiamo. Mi auguro che il 2016 sia l’anno della svolta in questo senso: paradossalmente, ci troviamo in un momento della nostra storia in cui veniamo apprezzati anche in contesti mai visti prima. Quando diventi una sorta di classico, la gente finisce per cambiare idea su di te. In questo senso, siamo state tra le band più colpite dall’ondata grunge: di colpo diventammo icone della futilità e per un po’ la cosa finì per condizionarci.”
Credo siate finiti in quella sorta di prigione dorata delle super icone degli anni ottanta: delle due, forse è comunque meglio continuare a fare tour in America che date in Italia…
“(Ride, ndr) Sì, ed è davvero strano perché negli ultimi cinque o sei anni si è assistito al recupero delle grandi band degli anni settanta che, se ci pensi, a metà anni ottanta venivano considerate delle scarpe vecchie da buttare. Noi, per alcuni mercati, siamo finiti in questa specie di limbo in cui siamo considerati tra le cose più importanti di un decennio, ma quasi come se non fossimo mai andati avanti. I problemi sono molteplici, nel senso che anche noi ci abbiamo messo del nostro con album poco ispirati, ma credo che la via sia stata segnata dal disco precedente: molta gente mi sta dicendo che sei anni tra un album così ispirato e il successivo sono un’eternità. Ad un certo punto avevo la testa così infestata di nuove canzoni che non riuscivo a dormire la notte, avevo pensato anche ad un album solista. Solo che ho pensato fossero troppo buone per non utilizzarle con la band. Mi sono quindi dedicato agli Down ‘N’ Outs, la band che ho messo in piedi insieme a componenti dei Quire Boys con cui omaggiamo i Mott The Hoople e quel periodo della musica inglese.”
Alla fine si torna sempre lì. All The Young Dudes dice: I Need Tv When I Got T Rex. Oggi chi è Joe Elliot, un T Rex o ancora uno young dude?
“(Ride, ndr) domanda fantastica! Allora, fisicamente mi sento molto bene anche se mi piace continuare a frequentare gente come Ian Hunter o Brian May proprio per sentirmi un fottuto ragazzino. Siamo in giro da una vita, quindi spesso ci considerano pure più vecchi di quello che siamo in realtà. La cosa bella dell’invecchiare è che cambia completamente il tuo punto di vista: quando avevo quindici anni, i trentenni mi sembravano con un piede nella fossa, poi cresci e ti ritrovi a dire: beh, a cinquant’anni ho tutta la vita davanti (ride, ndr). Ho la fortuna di essere in buona salute, cosa per cui ogni giorno mi sento un privilegiato, visto il calvario che sta passando da anni Vivian (Campbell, in cura per un tumore, ndr) o che hanno passato moltissimi amici. Negli anni abbiamo esagerato, conducendo una vita spesso al limite e pensando di essere una sorta di semi dei: ora facciamo una vita più consona alla nostra età. In pochi credo possano ancora fare quella vita, anche chi continua ad ostentarlo…”
Da sempre citi tutte le influenze della tua vita, omaggiandole e inserendole spesso nel tuo modo di comporre canzoni. Rivoltando la questione, vedi qualche gruppo che ha fatto propria la vostra lezione?
“Non ho mai avuto paura di dichiarare le mie fonti di ispirazione. Ho un’età per cui sono esploso musicalmente con la NWOBHM, dopo la rivoluzione punk e con una grande passione per il rock classico: un mix di cui quelli nati dieci anni prima di me non avevano potuto godere. Detto ciò, credo che la nostra bravura sia stata quella di non essere mai stati derivativi: nessuno dei nostri dischi sembra qualcosa di già sentito, se non da noi, e anche per questo talvolta la gente si stupisce nel leggere i nomi dei nostri idoli. Conduco una trasmissione radiofonica che mi permette ogni settimana di omaggiare chi ha fatto nascere in me questo fuoco. Gruppi che mi ricordino i Def Leppard, francamente, non ne ho ancora sentiti e di questo solo felice per il discorso che ti facevo prima: la cosa migliore per omaggiare le tue origini è creare qualcosa di molto differente, inserendovi magari degli indizi qua e là. Il segreto è sempre l’attitudine: quella non ti farà mai suonare datato.”
E chi allora secondo te ha l’attitudine giusta per segnare ancora la storia del rock?
“Viviamo un momento storico irripetibile, in cui puoi ancora andare a vedere gli Stones suonare nelle arene da ottantamila posti o Paul McCartney fare concerti di tre ore, entrambi con un’energia che spesso non vedi nei ragazzini di vent’anni. Il bello sarà vedere cosa succederà tra dieci anni, quando questa gente non darà più una spinta così grossa all’industria della musica dal vivo. Io resto comunque tra quelli che non credono che gli anni zero non abbiano portato nulla di fresco alla musica contemporanea, anzi. Un gruppo come i Franz Ferdinand, per esempio, ha detto moltissimo, così come i Muse, una delle mie band preferite in circolazione. Adoro i Foo Fighters e credo che dal vivo ora come ora ci siano poche band al loro livello. Anche se la migliore scoperta degli ultimi anni restano i Ghost: penso siano tra le due o tre band più innovative sentite da moltissimo tempo, da tutti i punti di vista. Inoltre sono anche dei magnifici songwriters: li sto consigliando a tutti. Mi fa più tristezza vedere band come gli U2, che per anni hanno dettato la via, diventare dei cloni sbiaditi.”
Come vedi i Def Leppard in questo futuro senza punti di riferimento?
“Come i nuovi punti di riferimento, chiaramente: sono qui ad aspettare sul ponte che passino i cadaveri (ride, ndr)! Dio mi punisca per quello che dico, su certe cose non si scherza! Non vivo di ricordi e, se non avessi sempre la mente rivolta al futuro, allora sì che sarei davvero invecchiato male anche senza prendermi una sbronza in vita mia. Il futuro, ripeto, è nelle mani delle band che ti ho citato. Per quanto ci riguarda, sappiamo di poter dare ancora tanto e siamo entusiasti come all’inizio degli anni novanta. In termini di popolarità forse non raggiungeremo più gli apici di quegli anni, ma siamo considerati ancora una band da arene e grandi festival, quindi possiamo rompervi le palle ancora per diverso tempo. Quando guardo al passato è solo per capire meglio dove voglio andare e per avere qualche consiglio dai miei vecchi idoli.”