Album Da Riscoprire: Deep Purple – Made In Europe

Ci sono grandi dischi che non vengono ricordati come tali solo perché una pubblicazione meno frettolosa avrebbe permesso loro di godere di una fama molto maggiore. Se poi si commette anche l’errore di metterli a confronto con altri che li hanno preceduti e per altri intendiamo album del calibro di ‘Made In Japan’, è lapalissiano che le cose si facciano ancora più complicate. Pubblicato in fretta e furia al momento dello scioglimento della band inglese, ‘Made In Europe’ venne assemblato volutamente per creare una sorta di competizione postuma con l’illustre predecessore, a detta di molti il più grande album dal vivo della storia della musica, dura e non. “L’errore fu quello di puntare sulla reazione emotiva successiva allo scioglimento della band” – ricorda David Coverdale – “che per altro non comprendeva già da un po’ di tempo Ritchie. Martin (Birch, ndr) fece un grande lavoro, ma forse sarebbe stato meglio pubblicare un intero concerto e non cinque brani da diversi concerti”. In realtà, il problema non stava molto nella scelta di date differenti, cosa che per altro Birch aveva fatto anche in ‘Made In Japan’, ma piuttosto proprio nella scelta commerciale che stava intorno all’uscita: nome che rimandava al live precedente e copertina che ne ricalcava in qualche modo l’immagine. Inevitabile che stampa e pubblico cadessero nel tranello. Quello che quindi la casa discografica guadagnò in vendite immediate, lo perse poi ingiustamente nel tempo. Eppure, seppur macchiato da qualche overdubbing e da applausi aggiunti in studio, ‘Made In Europe’ resta un grandissimo manifesto di quello che il Mark III era in grado di fare sul palco. “È un peccato che per anni quel disco sia stato paragonato a ‘Made In Japan’” – dichiarò Ian Paice nel 2011, interpellato a riguardo di un’ipotetica reunion della formazione – “perché credo che contenga alcune delle versioni live migliori di sempre. Penso a Mistreated o a Burn, per esempio, che ancora oggi mettono i brividi. Credo che oggi molti fan l’abbiano rivalutato”. La scelta di non includere brani che appartenevano alla formazione precedente fu chiaramente studiata a tavolino e, sostanzialmente, ancora oggi pare vincente. Gli album successivi come ‘Mark III: The Final Concerts’ o le pubblicazioni per intero dei concerti da cui erano state tratte le cinque tracce dell’album, infatti, mostrano chiaramente quanto Coverdale non si trovasse a proprio agio nell’interpretare i brani di Gillan. “Lui anni dopo poté permettersi di non cantare i miei brani” – ricorda ancora Coverdale – “Io, invece, avevo vent’anni, non ero nessuno e, soprattutto, nemmeno mi posi la questione: come avrei potuto cantare solo pezzi nuovi in una band con la storia dei Deep Purple? È chiaro, però, che non fossero nelle mie corde”. Nel bene e nel male, la differenza la fece comunque ancora Blackmore: nonostante sapesse già che la sua avventura porpora fosse giunta al termine e il debutto dei Rainbow già nei negozi, Ritchie quando era in serata faceva spettacolo a sé. Proprio come quella sera in California, la prima in America dopo l’addio di Gillan e Glover: il chitarrista, durante una delle più incredibili esecuzioni di ‘Space Truckin’’, distrusse la propria Stratocaster e diede fuoco ad un amplificatore per dimostrare il proprio malcontento nei confronti degli organizzatori, rei di aver anticipato troppo l’esibizione della band. ‘California Jamming’, purtroppo, vedrà la luce solo alla fine degli anni ’90 e ancora oggi resta forse la più grande testimonianza live di quel gruppo che, come sappiamo oggi, si sarebbe riformato se Jon Lord fosse guarito dal suo male.