Gli U2 Di Unforgettable Fire

Una delle grosse derive della crisi del mercato discografico degli ultimi dieci anni è stato inevitabilmente quello di farci ricordare molto bene certe ricorrenze, grazie a ristampe spesso inutili e a fantomatiche rimasterizzazioni che, quasi sempre, si sono tradotte in semplici innalzamenti dei volumi rispetto alle versioni originali. Se, però, facciamo lo sforzo di estraniarci per un attimo da tutto il meccanismo di cui sopra, è possibile riportare tutto su binari che competono ad opere di una certa portata. È ormai un dato di fatto accettato e sancito dai libri di storia della musica che con The Unforgettable Fire gli U2 diedero il via ad una serie di pubblicazioni che, per lo meno fino a Pop di tredici anni dopo, avrebbe avuto pochissimi termini di paragone col passato, un filotto di dischi spesso agli antipodi gli uni rispetto agli altri ma tutti in grado di condizionare le sonorità dei gruppi di gran parte del globo per almeno il lustro successivo. Quello che sicuramente ai tempi era però impossibile da presagire fu lo scossone emotivo/musicale che una pubblicazione del genere fu in grado di dare ad un decennio che pareva dover viaggiare esclusivamente sui binari dell’edonismo e del disimpegno morale, che insomma aveva dimenticato molto in fretta l’insegnamento del punk da cui sostanzialmente nasceva la stessa musica degli U2. Se già War un anno prima aveva evidenziato una maturazione stilistica e di contenuti che faceva presagire l’imminente salto nell’olimpo, fu senza dubbio grazie a questo disco che la band diede in qualche modo addio a quelle sonorità post punk che ne avevano caratterizzato gli esordi, per trasformarsi in quelli che oggi tutti quelli compresi tra i trentacinque e i quarantacinque anni considerano Gli U2. L’album in cui si poteva celebrare contemporaneamente Martin Luther King ed Elvis Presley senza che nessuno storcesse il naso, quello in cui le parole di Bono sembravano così sincere da far apparire ancora più assurda la caricatura di se stesso in cui lentamente iniziò a trasformarsi nel nuovo millennio. Quell’impegno forse più ingenuo, ma di sicuro più genuino e meno strumentale di quello manifestato oggi, fu anche la molla che convinse Bob Geldolf a invitare in extremis la band a suonare alla data londinese del Live Aid e, se è vero che nell’immaginario collettivo il concerto di Wembley resta segnato dall’esibizione dei Queen, l’infinita e straziante versione di Bad proposta dagli U2 rimane uno dei momenti più toccanti di un intero decennio. A dimostrazione che ai tempi il gruppo non fosse ancora quel manifesto posticcio del politicamente corretto che è oggi, quei venti minuti di esibizione entrarono nella storia anche per l’idea di Bono di scendere tra la gente e prelevare una ragazza dal pubblico per portarla onstage a danzare insieme a lui: un gesto di rottura completa contro i rigidi protocolli di Geldolf, che non voleva che lo show si trasformasse in una vetrina per band in cerca di notorietà. A distanza di tanti anni, per tutti The Unforgettable Fire resta anche l’album di Brian Eno, anche se questa ricorrenza può servire a ricordare l’importanza di Daniel Lonois, quell’omino che da lì a poco, senza clamori e lavorando spesso nell’ombra, mise il proprio nome anche su The Joshua Tree, su So di Peter Gabriel e che riuscì a ridare a credibilità ad un Bob Dylan ormai finito con Oh Mercy. Roba minima insomma. Oggi quegli U2 inevitabilmente non esistono più e tutto sommato è anche sano che sia così: pretendere da una band come questa le stesse cose che faceva a trent’anni fa è stupido e irrispettoso della sua storia, così come pensare che la rabbia che ti ribolliva dentro a venticinque anni possa essere la medesima di quando guardi il mondo dal Principato di Monaco, senza tirare in ballo questioni morali o etiche che lasciano comunque il tempo che trovano. Tutti i grandi gruppi sono passati attraverso momenti come questo: andate a chiedere a qualcuno dei presenti al Circo Massimo due estati fa cosa pensasse degli Stones a metà degli anni ottanta…