The Cult: Ian Astbury Racconta Hidden City

Dopo aver raggiunto il successo, quello vero, alla fine degli anni ’80, la band di Ian Astbury e Billy Duffy è tornata lentamente a ricoprire il ruolo di outsider di lusso, perdendo forse l’attenzione del grande pubblico ma continuando un percorso musicale fatto di coerenza e sudore. Hidden City probabilmente non farà tornare la band negli stadi, ma conferma nuovamente il valore di un duo compositivo tra i più riconoscibili di sempre, capace di dire ancora qualcosa di incisivo. Ne abbiamo parlato proprio con Astbury, disponibile e filosofico come da tradizione.

Qualcuno scopre oggi che Hidden City va a concludere un’ideale trilogia iniziata nel 2007 con Born Into This. Un progetto consapevole o nato nel corso del tempo?

In realtà si tratta davvero di una trilogia, ma non nata a tavolino ai tempi della nostra reunion. A prova di questo, poco dopo la pubblicazione di Born Into This dichiarai che forse non avrebbe avuto più alcun senso pubblicare nuovi dischi, ma solo qualche canzone ogni tanto. Poi, cambiai idea. Se in quel disco parlavamo di come ci sentivamo in un mondo che non riuscivamo più a sentire nostro, in Choice Of Weapon ci siamo invece confrontati con la difficoltà legata alla rivoluzione digitale. Già nel secondo album, prima ancora che in Hidden City, abbiamo compreso che l’unica risposta possibile poteva trovarsi solo dentro di noi. Piano piano i testi sono diventati sempre più spirituali e probabilmente oggi toccano il loro apice: il luogo di nascosto di cui parlo è proprio il cuore.”

Anche le copertine, viste oggi, sembrano strettamente legate: nel primo una bestia feroce, nel secondo lo Sciamano Nero e oggi questo fiore che pare trafitto. Insomma, il ritorno alla natura è la via?

Robert Blythe disse una cosa che nella mia vita ha sempre avuto un peso enorme: quando gli uomini e le donne perderanno il contatto con gli animali selvatici, allora sì che le cose inizieranno ad andare male. Più di una volta nella mia vita per ritrovare me stesso ho dovuto recuperare il mio lato selvaggio. Può essere il deserto di Joshua Tree o l’Himalaya, ma sono ambienti in cui sei così a contatto con il tuo lato interiore da non poter più fare finta di non vederlo. Sono sempre stato attirato dalla popolazioni strettamente legate alla spiritualità: sono cresciuto vicino ad una riserva indiana e ho imparato presto a capirne le peculiarità. L’utilizzo dello Sciamano Nero non fu causale, perché è una figura che rispecchia alla perfezione i sentimenti del nostro tempo. Egli appare dal deserto per ricordarci il nostro rapporto con la natura, che è l’unico che può salvarci. È un omaggio alle culture indigene che ancora credono nella sua sacralità.”

E in qualche modo omaggi ancora anche Jim Morrison e le sua poetica…

Assolutamente sì. Vivo a Los Angeles, l’album è stato registrato qui e posso dirti che ancora oggi la città respira l’anima di Morrison costantemente. Ho avuto la fortuna di poter cantare le sue canzoni per un breve arco della mia vita e quell’esperienza, unita ad altre meno legate alla musica, mi ha fatto capire che il mio discorso con i Cult e con la scrittura in generale non era ancora terminato. Non è un caso che i miei testi più spirituali siano nati proprio da lì, anche se da sempre certe tematiche popolano le mie liriche. Ogni sera in cui salgo su un palco omaggio in qualche modo il poeta Morrison ed è bello vedere oggi i suoi libri tra quelli dei poeti e non tra le biografie musicali: è proprio ciò che voleva gli venisse riconosciuto. Ad ogni modo, qualcuno crede che la mia passione per certe tematiche venga tutta da lì, ma come spesso accade, la gente cerca sempre la strada più semplice.”

Per Choice Of Weapon vi avvaleste di due produttori, Chris Goss e Bob Rock. Oggi è rimasto solo il secondo. Come è avvenuta la scelta?

La scelta dei due produttori fu la migliore che potessimo fare in quel momento: come ti dicevo prima, inizialmente non avevamo più intenzione di registrare veri e propri album, per lo meno nel senso più classico del termine. Volevamo pubblicare una serie di capsule e la scelta per la produzione ricadde su Chris Goss. Avevo già lavorato con lui per il mio disco solista del 2000 e penso sia la persona in grado di capire meglio il mio lato spirituale e quello che pervade la nostra musica. E Bob…be’ con Bob abbiamo registrato alcuni dei nostri album migliori, chi meglio di lui conosce le nostre dinamiche da studio? Questa volta il procedimento è stato più lineare e ci è parso più funzionale lavorare solo con Bob, anche se Chris resta uno dei miei punti di riferimento assoluti ogni volta che scrivo un verso.”

In qualche modo, anche Electric si avvalse del lavoro di due produttori…

Hai ragione, non ci avevo mai pensato in questi termini. Anche se, in effetti, in quel caso le cose andarono un po’ diversamente. Non credo che Steve Brown si consideri ancora il produttore di quel disco, anche se negli ultimi anni abbiamo pubblicato anche le tracce registrate con lui. Oggi che quell’album è stato ristampato con entrambe le versioni si può davvero capire quanto Rubin stravolse il sound iniziale delle canzoni, rendendole quelle che oggi tutti conoscono. Onestamente, rifarei quella scelta anche oggi, perché Rubin era l’unico che potesse portarci a quel livello in quel momento della nostra carriera. Portò il tutto verso territori molto settantiani, ma in realtà eravamo noi in quel momento a sentirci molto vicini a certe sonorità e probabilmente Rick percepì quel mood nell’aria e ne trasse il meglio.”

Per via di quell’album e, in parte, di quello successivo vi affibbiarono l’etichetta di band hard rock. In realtà, visto il vostro percorso musicale, quell’etichetta oggi vi va molto stretta.

Sai, dopo Electric cambiarono molte cose: arrivavamo dal successo di Love, non era ancora quell’album che tutti oggi ci riconosco, ma che aveva creato comunque molte aspettative. Il suo successore spiazzò alcuni di quelli che ci avevano conosciuto in precedenza e ci fece guadagnare molti fan tra gli ascoltatori di musica più pesante. Passammo da essere considerati astri nascenti della new wave e del rock gotico a icone hard rock, ma in realtà quell’album rimane un grande omaggio al rock ‘n’ roll, non credo affatto si trattasse di hard rock. Ascoltato oggi è molto classico. Perché non continuammo su quella strada? Capimmo subito che in giro c’era gente che lo faceva da molto più tempo e meglio di noi, come gli Stones per esempio (ride).”

Eppure, anche negli album meno guitar oriented come Hidden City, il suono Cult è rimasto una costante che si ritrova ogni volta. Quando parte Dark Energy sembra di non essersi mai lasciati…

Quello è merito di Billy, di cui pochi parlano, ma che ha uno dei suoni più riconoscibili del rock in assoluto. Di ottimi chitarristi è pieno il mondo, ma non sono molti quelli riconoscibili prima che il cantante della band apra la bocca. Non abbiamo voluto ricreare nessun album della nostra carriera, né tanto meno scimmiottare noi stessi, ma solo mettere in musica quello che siamo ora. Dentro c’è tutto quello che abbiamo sempre fatto, ma con più maturità e meno pressioni. Credo che gli ultimi tre dischi possano piacere o meno, ma la cosa che più traspare credo sia l’onestà intellettuale che c’è dietro. In Hidden City abbiamo messo l’anima e credo che la cosa si percepisca fin dal primo ascolto. Anche questa volta abbiamo registrato moltissime parti dal vivo in studio, perché abbiamo bisogno di percepirci.”

Come è cambiato il rapporto tra te e Billy nel tempo?

I Cult oggi finalmente rappresentano la fusione totale delle nostre anime. Un tempo facevamo fatica a capirci l’un l’altro. Capire gli altri è la cosa più difficile al mondo. Quando scriviamo un pezzo siamo una sola persona: mi basta sentire un suo riff o una sua melodia perché dentro di me nascano le parole, così come a lui basta leggere un mio testo per trarne ispirazione. Siamo sempre diversi, ma ora allineati. Te lo dimostra anche un disco come questo, che come forse avrai notato non è basato completamente sul suono della chitarra, ma bensì su quello del piano. Il processo creativo è stato incredibile: una volta entrati in studio, ho capito che il piano sarebbe stato il fil rouge del disco e mi sono messo a suonare melodie che mi uscivano senza mediazione alcuna. Billy ha compreso la mia esigenza interiore si è messo completamente al servizio delle canzoni, con un umiltà commovente.”

Hai trovato finalmente la pace interiore che cerchi da anni?

Diciamo che il percorso non è così semplice come potevo pensare quando lo iniziai. Lotto con i miei demoni da molto tempo, ho capito cosa sbagliavo e perché, ma soprattutto sono riuscito a perdonarmi per alcune cose di cui mi incolpavo. Ho riscoperto un rapporto con la natura che coi secoli l’uomo ha completamente abbandonato e che è causa di molti dei problemi che abbiamo e che avremo in futuro. Viviamo in un periodo storico in cui superficialità e volgarità vengono venerati come dei e tutto questo ci sta conducendo alla rovina.”