Uriah Heep: Intervista A Phil Lanzon

Ventiquattro album da studio non sono un traguardo così semplice da raggiungere per una band, soprattutto se innumerevoli cambi di formazione ne minano da sempre la stabilità. Mick Box e compagni, però, devono avere la pelle molto dura e il recente album di rivisitazioni Totally Driven, oltre all’ultimo album da studio Outsider lo riconfermano appieno. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Phil Lanzon, tastierista del gruppo dal 1986 e vecchio membro degli Sweet.

Pur essendo Mick l’unico membro presente in tutte le incarnazioni degli Uriah Heep, tu fai parte della band da quasi trent’anni. Non una cosa da poco…

“Sì, io e Bernie (Shaw, ndr) siamo nella band dallo stesso anno ed è passato così tanto tempo che ormai mi sembra di aver militato in un solo gruppo nell’arco della mia carriera. Quando sono entrato a far parte della band non credevo onestamente che sarebbe andato avanti tutto per così tanti anni: la situazione non era delle migliori, c’erano stati diversi cambi di line up e sembrava non dovesse più ritrovarsi quell’alchimia che aveva permesso al gruppo di diventare uno dei più celebri della storia del Regno Unito…”

In effetti la metà degli anni ottanta fu un momento davvero critico per gli Uriah Heep e la credibilità della band iniziava ad essere messa in discussione.

“Sai, le pressioni erano ancora molto elevate: negli anni settanta i dischi d’oro erano piovuti dal cielo in gran quantità e tutto sembrava dovesse proseguire in quella direzione. Non avendo vissuto dall’interno gli anni precedenti non potevo capire appieno le dinamiche interne della band, ma poco dopo esservi entrato iniziai a comprendere quante e quali emozioni doveva aver vissuto in quegli anni Mick. Il primo disco in cui suonai, Raging Silence, seppur non fosse affatto male venne bollato come l’ennesima prova senza mordente di un’ex band, fatta oramai solo da dinosauri. Poi arrivarono gli anni novanta che spazzarono via la maggior parte della musica non impegnata del periodo, ma paradossalmente per noi non furono terribili.”

Oggi invece venite trattati come delle leggende viventi. Considerato quello che mi dicevi, vi fa più sorridere o arrabbiare la cosa?

“Un po’ ci fa piacere, è logico. Però in virtù di quello di cui stavamo parlando, devo ammettere che tutta la faccenda è davvero ridicola. La cosa che mi consola è che si tratta di una cosa che succede a tutte le band che hanno fatto la storia di un genere: negli anni ottanta venivano considerate delle vecchie scoregge, poi qualcuno in voga al momento le cita come proprio ascolto o come fonte d’ispirazione più o meno importante e bam, ecco il telefono che ricomincia a suonare e le richieste che tornano. Come sempre, in tutto ciò, i nostri fan sono stati la costante più bella di tutte: senza di loro non avremmo nemmeno potuto continuare a fare questo mestiere. Le regole dello show biz sono completamente diverse da quelle dell’anima, fortunatamente.”

Be’, direi che non poteva dunque esserci titolo migliore di Outsider per il vostro ultimo album da studio…

“Vista così, direi proprio che sia il titolo perfetto (ride,ndr). È venuto fuori un titolo che sembra fatto apposta per raccontare chi siano stati gli Uriah Heep nel corso di quasi cinquant’anni di carriera, ma è autobiografico per puro caso. Ci siamo accorti subito che poteva essere visto in questo senso e la cosa ci è piaciuta immediatamente, ma in realtà il brano l’ho scritto partendo da un testo di mio fratello, che con la band non ha assolutamente nulla a che fare! Dunque è stata una casualità da cui poi è nata una cosa che ci rispecchiava alla perfezione. Nessuna dietrologia, dunque.

L’album fu idealmente dedicato a Trevor Bolder. Immagino sia stato molto strano entrare in studio senza di lui…

“Lo è stato ancora di più perché lo abbiamo fatto mentre lui era ancora in vita ma non poteva più far niente a causa della sua malattia. Voleva a tutti i costi che andassimo avanti con la creazione del nuovo materiale, voleva sapere mentre era ancora sulla terra che gli Uriah Heep avrebbero pubblicato un nuovo album. È stato lui stesso ad approvare l’ingresso di Dave (Rimmer, ndr) al basso ed è stato quindi naturale che egli diventasse il nostro nuovo bassista. Ci sembra che la cosa dia in qualche modo una continuità spirituale a questa triste storia. Suonare sapendo che era vivo, ma con la consapevolezza che nulla avrebbe potuto salvarlo è stato straziante: quel presagio di morte ha aleggiato su tutte le session di Outsider.”

Outsider sembra una sorta di grande summa della vostra carriera dall’ingresso di Shaw ad oggi. Troviamo i classici momenti spinti, ma questi convivono alla perfezione con gli episodi più rilassati.

“Avendo preso parte alla stesura di tutti i brani dell’album, posso confermarti che in quest’ultima parte di carriera ci stiamo divertendo a recuperare un po’ quelli che sono sempre stati i nostri punti di forza. Francamente non abbiamo più nessuno che ci dice cosa dobbiamo fare o come dobbiamo suonare per sembrare gli Uriah Heep. Io, Mick e Bernie siamo ormai l’anima del gruppo, che ha vissuto così tante esperienze comuni, belle e meno belle, da sapere sempre quello che deve fare in certe situazioni. Quando non abbiamo avuto nulla da dire, siamo stati zitti. Va detto poi che l’inizio del millennio, con tutti i cambiamenti epocali che vi sono stati in ambito musicale, non ci ha visti protagonisti di quell’ondata di revival che ha riportato in vita band che non facevano album da vent’anni. Noi abbiamo preferito non diventare ridicoli.”

Non avete paura di rielaborare il vostro passato per costruire il vostro presente, insomma.

“Non vogliamo diventare delle caricature o concludere la nostra avventura scimmiottando noi stessi: siamo tutti abbastanza maturi e nessuno di noi ha bisogno di fare questo per sopravvivere, dunque sarebbe una cosa davvero stupida. Abbiamo un rispetto immenso per il nostro passato e nessuna intenzione di infangarlo con prodotti che non rispecchino la nostra anima e la nostra storia. Allo stesso tempo, però, abbiamo voglia di confrontarci con le nuove tecnologie, con il mondo che ci sta intorno e che cambia ogni secondo. Non vogliamo nemmeno andare in giro a suonare sempre i soliti quindici pezzi perché sono quelli che la gente vuole sentire. La dignità viene prima di ogni altra cosa.”

Tempo fa Mick Box disse che restaste dieci anni senza produrre un nuovo album perché le case discografiche erano gestite da dementi.

“Be’, tu come definiresti delle persone che non ascoltano il materiale che gli viene inviato, ma cercano band che suonino come altre band che stanno avendo successo in quel momento? Io direi che è pura e semplice merda. Il mercato discografico non è cambiato per l’arrivo di internet, è imploso per la gestione scellerata di quel patrimonio infinito che è stata la musica dagli anni sessanta ai novanta. Poco prima del collasso, gente come Santana che non arrivava al numero uno da trent’anni, vendette venti milioni di album, segno che se avessero fatto pagare un po’ meno la musica ancora oggi la gente spenderebbe dei soldi per comprarla. La verità è che non è mai morta di fame la gentaglia che avrebbe meritato di farlo.”

Eppure ascoltando nuovi pezzi come Speed Of Sound, Say Goodbye o molti altri dal vostro ritorno del 2008, qualche rimpianto nasce per quel decennio buttato.

“Non sono mai stato uno da rimpianti e trovo inutile dire cose del genere col senno di poi. Ti confesso però che sull’onda dell’emozione per la scomparsa di Trevor, mi è capitato di pensare che avremmo potuto comporre più musica in quegli anni, in modo che ci fossero più canzoni in cui sentire oggi il suo basso. Poi però torno a pensarla come sempre: è andata così perché è così che doveva andare. Punto. Probabilmente se avessimo trovato qualcuno voglioso di produrre un nostro disco nel 2003, oggi saremmo a parlare di tutt’altro, visto che avrebbe venduto dieci copie probabilmente. Fidati, tutto ha un senso e il caso non esiste.”

Prima di entrare negli Uriah Heep hai suonato con una lunga serie di artisti, spesso anche distanti tra loro. C’è qualcuno con cui avresti voluto condividere più esperienze?

“Su due piedi, se dovessi dirti il primo nome che mi viene in mente, direi Mick Ronson. Prima parlavamo di Trevor e non dobbiamo mai dimenticare che lui era uno degli Spiders From Mars che accompagnarono David Bowie in quell’avventura straordinaria che fu Ziggy Stardust. Ho accompagnato Mick per un breve periodo, che ricordo come uno dei più belli della mia vita: era una persona splendida, di una dolcezza incredibile. Con gli Sweet, poco prima di entrare negli Uriah Heep, mi sono divertito molto: tutti quei lustrini e quei coretti mandavano la gente fuori di testa, anche se il loro periodo d’oro era già concluso e io mi sono sempre sentito più a mio agio con il progressive che con il glam.”

Da questo punto di vista c’è qualcuno con cui vorresti o avresti voluto collaborare?

“In assoluto Keith Emerson. Credo sia il più grande tastierista della storia di questo genere ed uno dei più grandi della musica popolare in generale. Se fosse un musicista classico ne parlerebbero tutti i più grandi maestri, mentre come spesso accade, suonare musica popolare porta grandi musicisti ad essere completamente sottovalutati.”