Metallica: Inventori Del Thrash (Prima Parte)

Voi non dovete cercare un nuovo sound per la musica inedita che andrete a comporre, dovete semplicemente tornare a scrivere con la stessa attitudine che avevate nella prima metà degli anni ottanta. Non stupirete il vostro pubblico cambiando genere o cercando a tutti i costi di essere innovati: i Metallica devono semplicemente tornare a fare i Metallica. Questo è il ventesimo anniversario di Master Of Puppets, la parola thrash prima di voi non aveva alcun senso in musica”. Con queste parole, nel 2006, Rick Rubin si rivolse ai quattro ex Cavalieri dell’Apocalisse con l’intento di riaccendere un fuoco che sembrava ormai spento da diversi anni. L’intento di Rubin non era certo quello di creare un disco che scimmiottasse le sonorità che avevano reso immortali i Metallica, ma cercare di settare nuovamente il loro cervello sulle emozioni, sugli stati d’animo e su tutto quello che ruotava intorno alla loro creatività di giovani adulti che si apprestavano a conquistare gran parte del mondo emerso. È vero, il loro amico Cliff Burton se n’era andato da troppo tempo e per molti, il drastico cambiamento di sound attuato dall’inizio degli anni novanta era molto più legato all’incapacità di affrontare davvero quell’assenza, piuttosto che alle idee del guru Bob Rock o agli scazzi col nuovo entrato Jason Newsted. Rubin, da scaltro conoscitore dei meccanismi più perversi dell’animo umano, aveva intuito che quello poteva davvero essere il momento giusto per un lavoro del genere e, quando vide negli occhi di Lars Ulrich e James Hetfield una luce simile a quella che gli aveva visto nei video dell’epoca che aveva visionato, capì che avrebbe dovuto sfruttare quell’occasione. Proprio come aveva fatto pochi anni prima, quando disse a un Johnny Cash dimenticato da tutti e sul viale del tramonto che non avrebbe potuto ritirarsi a vita privata senza aver ancora composto il suo album migliore. L’aver convogliato dieci anni di crisi interiori e interpersonali in quel percorso che aveva portato alla nascita di St. Anger e alla scomparsa del Mostro che li aveva accompagnati per tutto quel tempo, unito alle celebrazioni dell’anniversario che li portava a suonare ogni sera per intero il loro capolavoro, rappresentò il classico mix in grado far fare loro finalmente pace anche con il proprio passato musicale. Sebbene, col senno di poi, non fosse riuscito del tutto nell’intento di riportarli ai fasti di due decenni prima, Rubin un risultato lo aveva sicuramente ottenuto: Death Magnetic non riuscì ad essere all’altezza delle immense aspettative di pubblico e addetti ai lavori, ma dimostrò chiaramente quanto la band fosse tornata a divertirsi e a ricercare davvero una visione musicale che, in qualche modo, riattualizzasse quella che avevano avuto nei primi anni ottanta. Logicamente, filtrata attraverso la sensibilità di uomini che avevano superato da qualche anno le quaranta primavere. Ma qual era, in definitiva, quella visione musicale che, in piena esplosione tanto della NWOBHM che dell’ondata hardcore punk americana, invase il cervello di quattro nerd con la passione per sonorità tanto diverse da quelle dei loro genitori hippie? Difficile pensare che Ulrich, ex promettente tennista danese trasferitosi da poco in America con la famiglia, nel 1981 avesse le idee chiare circa quello che volesse fare della propria vita quando rispose all’annuncio che fece lo entrare in contatto con James Hetfield: i suoi gli avevano regalato una batteria economica e lui si divertiva a scimmiottare i passaggi dell’idolo Ian Paice, provando a brutalizzarli secondo l’insegnamento di band come Iron Maiden, Motörhead e Venom, che in quel periodo avevano catalizzato tutti i suoi pensieri. Dal canto suo, Hetfield, reduce da un’esperienza con gli acerbi Obsession, aveva un briciolo di esperienza in più, ma il carico d’odio che si portava dietro veniva più dalle imposizioni religiose della propria famiglia che dagli ascolti che lo accomunavano al futuro compagno di scorribande. Fino a quel momento, il migliore amico di James era stato Ron McGovney, anch’egli appassionato di musica e chitarrista in erba. “ Quando James lasciò gli Obsession per formare una sua band, aveva bisogno di un bassista, perché per la chitarra solista aveva già trovato un certo Dave Mustaine.” – ricorda McGoveny – “Affittai quindi basso e amplificatore in un negozio e lui stesso mi insegnò ad usarlo.”. Mustaine era un ragazzo dotatissimo, ma inquieto e dedito agli stravizi, come molti dei ventenni che frequentavano il giro della band. Al contrario di quanto si potesse pensare, tuttavia, non possedeva ancora una marcata attitudine al comando: “Né io ne Dave abbiamo mai preso la leadership del gruppo. Dave era già un grande chitarrista, quindi alcune sue idee vennero sviluppate” – continua McGoveny – “Ma credo che i litigi tra lui e gli altri membri non fossero mai legati davvero alla musica, quanto a invidie tipica dell’età post adolescenziale.”. Sì perché, nonostante avesse contribuito a diversi brani che poi sarebbero confluiti nell’album di debutto dei Metallica, Mustaine non possedeva certo un carattere in grado di amalgamarsi al meglio con quello dei compagni. Lo stesso McGoveny lasciò la band proprio perché stanco dei continui conflitti tra i compagni, lasciando il posto a colui che avrebbe portato il suono della band versi orizzonti fino ad allora impensabili: il bassista dei Trauma Cliff Burton. Pur di averlo nella band, i due leader decisero di spostarsi a San Francisco, ponendo di fatto le basi per un movimento che da lì in avanti sarebbe stato sempre legato indissolubilmente alla Bay Area della città californiana. Poco dopo fu chiaro che anche Mustaine avrebbe dovuto lasciare la band: i suoi abusi, uniti probabilmente al fatto che la sua perizia chitarrista e le sue ambizioni andavano a cozzare con quella dei due leader indiscussi, fecero sì che il posto di chitarrista solista venisse offerto a Kirk Hammett, membro degli Exodus, band che aveva aperto in qualche occasione ai concerti dei neonati Metallica. Eppure, l’impronta dell’indisciplinato chitarrista che da lì a poco avrebbe dato vita ai Megadeth non fu impalpabile come quella del mediocre bassista che aveva appena lasciato il gruppo: diverse delle composizioni che convinsero la Megaforce a mettere sotto contratto la band, tra cui alcune che sarebbero diventate seminali per il genere musicale che si andava delineando, erano proprio opera Mustaine. Ad ogni modo, quella composta da Ulrich, Hetfield, Burton e Hammett e che stava per dare vita a Kill ‘Em All era la formazione che sarebbe passata alla storia come quella classica del gruppo, nonché l’ideatrice (ai tempi inconsapevole) di quello che per tutti sarebbe stato il primo esempio di album thrash metal arrivato alle masse. La brutalità dei brani che la band aveva composto era qualcosa di mai sentito in precedenza, tanto che tutto quello che era sembrato estremo fino ad allora, improvvisamente sembrò lontano anni luce. Le radici musicali del genere che stavano creando affondava sicuramente le proprie radici nella NWOBHM, anche se spesso si tendeva a considerare il thrash come una commistione di metal britannico e di hardcore punk americano. In realtà, le cose non erano così semplici, quanto meno dal punto di vista del pubblico dei due generi considerati, che raramente finì per mischiarsi, sia prima che dopo l’esplosione del fenomeno. A livello artistico poteva invece esserci un’influenza, ma molto più labile di quanto generalmente considerato dalla critica specializzata. Musicalmente, comunque, non vi erano dubbi sul fatto che i numi tutelari della scena thrash americana fossero gruppi come Motörhead, Venom, Black Sabbath, Mercyful Fate, Iron Maiden e Judas Priest. Sia nella costruzione dei riff, che delle strutture armoniche e dei lunghi assoli di chitarra, nonché nello stile dei testi era facile riscontrare una diretta influenza tra tali band e i loro discepoli americani. L’adorazione per queste band fu anche quella che spinse i Metallica all’esordio. Il loro approccio alla musica, tuttavia, era molto più violento e provocatorio, grazie ad una furente accelerazione del sound che l’Europa aveva partorito negli anni precedenti. Agli inizi venne denominato genericamente speed metal, ponendo l’accento sulla velocità d’esecuzione, ma presto il termine to thrash (percuotere, ndr) sembrò quello più adatto a definirlo nel modo migliore. Brani come Hit The Lights, Four Horseman o Metal Militia facevano tesoro degli insegnamenti della sopracitata ondata inglese, mantenendo comunque una certa matrice punk, che come riferimento principale aveva band come Misfits e Discharge. Ad impressionare era anche la ferocia degli argomenti trattati, un altro degli aspetti che avrebbe dato il via ad quell’escalation di violenza che avrebbe trovato il proprio culmine nel death e nel black che da lì a qualche anno avrebbero dominato la scena estrema mondiale. Se è vero che, pochissimi mesi dopo la pubblicazione di Kill ‘Em All, anche gli Slayer, un’altra delle potenze che avrebbe fatto parte dei cosiddetti Big Four, avrebbero debuttato con Show No Mercy, è altrettanto vero che, ai tempi, la band di Tom Araya si limitava ancora a seguire le tracce delle proprie fonti di ispirazione, più che a segnare una nuova via da seguire. L’influenza dei Metallica, invece, stava già diventando seminale: la scelta di registrare il debutto nella East Cost permise infatti al germe del nascente thrash metal di attecchire anche in quella parte d’America, dove una band come gli Anthrax era pronta a raccoglierne l’acerbo insegnamento. Insomma, se tutte le band che ancora oggi vengono considerate seminali nacquero praticamente nello stesso momento e se gli Slayer ebbero l’ardire di trattare fin da principio argomenti di cui prima nessuno aveva avuto il coraggio di parlare, i Metallica furono senza dubbio il faro di un intero genere. In pratica, oggi come allora, la band in grado di definire meglio di ogni altra la portata storica e fenomenologica del movimento thrash. Come confermarono i loro due album successivi. Tutte le intuizioni mostrate nell’album di debutto, solo un anno dopo, si concretizzarono in forma compiuta in Ride The Lighting, album in cui i Metallica perfezionarono il tiro grazie ad evidenti miglioramenti tecnici e ad una coesione che, inevitabilmente, era andata aumentando insieme alle date dal vivo. Interpretando alla perfezione lo spirito dei tempi, i quattro musicisti mostravano l’altra faccia dell’America reaganiana, quella decisamente più cruda, realistica e veritiera. Quella che solo dodici mesi prima sembrava una band spinta più dalla foga che da doti tecniche reali, pareva scomparsa: chitarre eccezionalmente cupe e compresse, batteria ossessiva e velocissima (Fight Fire With Fire, Trapped Under Ice), un cantato aspro e gutturale (benché sempre venato di classica melodia rock) e brani lunghi e strutturati, fatti di cambi di tempo che non offrivano alcuno spiraglio ad un’eventuale commercializzazione degli stessi, né tanto meno all’airplay radiofonico. Il loro immenso successo, soprattutto nei primi anni, si basò esclusivamente sull’oceanico passaparola tra fan e sulla loro devozione assoluta. La band, per lo meno in questo periodo della propria carriera, si sforzò di essere esattamente come il proprio pubblico, in un processo d’identificazione pubblico-artista che raramente si era verificato prima nella storia del rock. L’anti divismo della band divenne proverbiale, così come i loro lunghissimi concerti in cui tutti gli spettatori potevano entrare con macchine fotografiche, telecamere e registratori portatili per immortalare l’evento. Icone incorruttibili dell’estremismo metal, non produssero video né ottennero, logicamente, passaggi in radio ma la loro ascesa fu comunque irresistibile. I Metallica, in pratica, finirono per rappresentare al meglio il devastante subconscio della generazione degli anni Ottanta, indifferente alla sofferenza umana e immersa fino al midollo in un immaginario fatto di guerre, violenze e orrori vari. La facilità con cui i Metallica portarono in musica tutto il peggio della condizione umana fu impressionante, soprattutto nel terzo album della loro carriera, considerato unanimemente il loro capolavoro: Master Of Puppets (1986). Il loro primo album con l’Elektra alzò ancora di più l’asticella grazie all’equilibrio perfetto ormai raggiunto dai quattro e da un perfezionamento ulteriore della fase di songwriting. Senza più bisogno di dimostrare nulla in termini di velocità d’esecuzione e liriche controverse, la band poté finalmente concentrarsi maggiormente sull’organicità del disco, dando vita al capolavoro thrash per antonomasia. La fusione di melodie dolci e sassate improvvise, i primi veri e propri assoli di Kirk Hammett, la maturazione musicale e umana di Hetfield e Ulrich, unite alla genialità del basso di Burton (che all’epoca pochissime band al mondo potevano vantare) diedero vita ad una pietra miliare della musica, fatta di schizofrenia sonora, testi micidiali e trame che avrebbero segnato per sempre il futuro della musica pesante. Chiunque, in qualsiasi parte del mondo, si fosse messo a suonare musica di quel tipo, avrebbe dovuto confrontarsi con quel disco, proprio come era successo in passato con celebri album come Black Sabbath, Deep Purple In Rock o The Number Of The Beast degli Iron Maiden. In Master Of Puppets, ancor più che nei due dischi precedenti, gli abissi neri dell’animo umano, estrinsecati in maniera diretta con il linguaggio della cronaca, per la prima venivano orchestrati e proposti con una perizia iconografica che sfiorava la perfezione, depurando la mostruosità del mondo da ogni partecipazione emotiva e da ogni impegno affinché essa potesse cessare. Era dunque inutile attendere l’Apocalisse, perché essa era già in corso e prometteva di essere lunga ed estenuante.