Springsteen Incanta Il Circo Massimo Ma Ora Deve Fermarsi

Il concerto del Circo Massimo, le cui cifre, al solito, variano di diverse migliaia a seconda della fonte che si prende in considerazione, ha dimostrato nuovamente quanto Springsteen sia ormai giunto allo zenith assoluto della propria carriera dal vivo, per lo meno dal punto di vista del seguito. Impossibile, infatti, voltarsi ieri sera e non capire di trovarsi di fronte ad uno degli eventi assoluti della storia del Boss e, inevitabilmente, anche del nostro Paese. Al di là degli sterili confronti numerici con altri show avvenuti qui prima di questo, la sensazione è che nessuno dei presenti sia qui per caso, cosa che per esempio mi era parsa la sera in cui i Rolling Stones suonarono sullo stesso palco. Ai tempi, infatti, gran parte del pubblico pareva essere presente quasi per poter dire di aver visto una volta nella vita Mick Jagger e soci e per il timore che si trattasse dell’ultima possibilità concessa loro dal fato, piuttosto che per vera devozione: quella sera, infatti, molti dei brani più noti nemmeno vennero cantati da gran parte degli spettatori. Ad un concerto di Springsteen, una cosa del genere sarebbe inconcepibile. Se è naturale che tra le decine di migliaia di persone ammassate sul prato ci fossero dei neofiti, è altrettanto lapalissiano che più del novanta per cento di loro avesse già partecipato almeno una volta a quello che, con un po’ di retorica, viene definito il rito per eccellenza del rock ‘n’ roll. Che il Boss sia emozionato dal colpo d’occhio è evidente fin da principio: il suo sguardo si perde nella marea umana del Circo Massimo, tradendo un briciolo di emozione, inevitabile persino per uno abituato a numeri spaventosi come i suoi. L’inizio è leggendario: come l’ultima volta nella Capitale, la band esegue New York City Serenade, quasi a risarcire idealmente tutti quelli che si erano persi la prima esecuzione europea di uno dei brani più amati dallo zoccolo duro degli springteeniani italiani. Badlands, come di consueto, serve a scaldare gli animi in una delle serate più miti dell’estate romana ed è il miglior preludio al consueto filotto di brani tratti da The River che, ad un certo punto, era riuscito a convincere tutti dell’esecuzione completa del disco celebrato nel corso di questo tour. L’esecuzione di Boom Boom e Detroit Medley, scelti entrambi dal pubblico, da un lato delude chi sperava di sentire il doppio album nella sua interezza, ma dall’altro porta l’immenso parterre a scatenarsi in quello che, immediatamente, si trasforma in una sorta di carnevale di Rio fuori sede. Parlando di setlist, uno degli aspetti principali di ogni concerto di Springsteen, i brani scelti rientrano mediamente in quelli eseguiti nel corso della tranche europea del tour, con alcune chicche: The Ghost Of Tom Joad, in acustico nel silenzio più emozionante cui abbia assistito negli ultimi anni, una Point Blank stratosferica, seconda forse solo a Drive All Night, Tougher Than The Rest e, per quanto mi riguarda, Indipendence Day, venuta ancora meglio che a San Siro la prima sera. Ad impressionare, comunque, resta la capacità di Springsteen di stregare folle con qualcosa che ha davvero del miracoloso, dell’esoterico. D’altra parte, vederlo sul palco ad un età che ogni anno si avvicina pericolosamente ai settanta, ci conferma ancora che una delle sue peculiarità resti quella di inglobare sessant’anni di storia della musica popolare in un unico corpo: in lui c’è Elvis, c’è Dylan, ci sono tanto Lennon quanto McCartney, c’è la fisicità di Jagger, la ruggine di Neil Young e persino la rabbia del grunge. Chi dice che oggi i suoi concerti sono qualcosa di diverso rispetto anche solo a meno dieci anni fa, ha perfettamente ragione: questo può piacere o meno, ma è una cosa con cui bisogna fare i conti. L’elemento autocelebrativo, per esempio, un tempo non esisteva, mentre oggi è parte integrante dello show. Qualche volta, pochissime a dire il vero, Bruce sembra anche soffrire un po’ la maratona, ma sono momenti che la mente si rifiuta di accettare e, istintivamente, tende a rimuovere in pochi secondi. Certo è che, giunto a questo punto, il Boss si trova di fronte ad un nodo cruciale della propria carriera: alzare di continuo l’asticella porta il pubblico ad attendere sempre di più la volta successiva e, francamente, sembra improbabile che il prossimo tour con l’E Street Band possa andare più in là di quello attuale. Una valida alternativa potrebbe essere quella di un tour solista, magari a celebrare Nebraska o un nuovo album di quel tipo, per poi tornare con i vecchi amici viaggiando su standard più umani, senza che il pubblico possa rimanere shockato nel vederlo rallentare dopo una serie di concerti che hanno superato costantemente le tre ore e quaranta. Oppure, come sempre, riuscirà ancora a stupirci. Per l’ennesima volta.