C’è poco da fare, un album della band di Steve Harris può piacere o meno, ma è difficile che lasci indifferenti. Se non altro per quella voglia di rimettersi sempre in gioco che ne ha caratterizzato l’ultimissima parte di carriera, da A Matter Of Life… in poi, per intenderci. The Book Of Souls, va sottolineato, è forse l’album più ambizioso del gruppo dai tempi di Seventh Son… e state bene attenti, non per forza di cose il migliore, ma di certo l’ennesima dimostrazione del fatto che la band inglese non si limiti a replicare incessantemente se stessa, ma cerchi di produrre qualcosa degno di una storia così gloriosa. Due le cose a balzare subito all’orecchio: la prima è la varietà di autori dei brani, col ritorno ad una scrittura davvero condivisa e non appannaggio del solito Harris. A tal proposito, gradito il ritorno al songwriting di Gers, anche se la parte da leone questa volta la fa Dickinson, che apre e chiude il disco con due brani quasi opposti: il primo ultra classico e il secondo, invece, ambizioso e di una durata mai vista prima in un disco dei Maiden. La pecca maggiore? Proprio la lunghezza del disco, il primo doppio in trentacinque anni di carriera. La sensazione, infatti, è sempre quella che basterebbe far finire i brani un paio di minuti prima per renderli più digeribili e meno autoindulgenti. Brani come The Red And The Black o la stessa traccia finale, per esempio, sfrondati a dovere avrebbero potuto essere annoverati tra i migliori di un’intera carriera.
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