L’epopea Dei Rainbow

Quella dei Rainbow è la più classica delle saghe rock n roll. Una storia travagliata, fatta di amori e tradimenti, con risvolti spesso degni di un’infinita telenovela e con un unico ed incontrastato protagonista assoluto: il  Man In Black Ritchie Blackmore. Fu lui a crearli nella seconda metà degli anni settanta e sempre lui si prese la briga di distruggerli, per alcuni di trasformarli, per formare i Blackmore’s Night alla fine del decennio del grunge. Sempre fedele ad un solo dictat: o con me o senza di me.


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 Meno dibattuti dei Deep Purple, ma altrettanto seminali, i Rainbow di Ritchie Blackmore vengono spesso dimenticati quando si parla di numi tutelari dell’hard rock. Il perché non è dato a sapersi fino in fondo, ma parte della risposta si può trovare nella difficoltà a dare un senso compiuto alla storia della band, incapace di pubblicare due album consecutivi con la stessa formazione. Tuttavia, se gli stessi Deep Purple, nonostante una simile varietà di formazioni, sono riusciti comunque a mantenere un sound riconoscibile, molto più difficile resta invece rispondere alla stessa domanda riguardante i Rainbow, visto che ad ogni cambio di cantante il sound ha finito per prendere direzioni spesso molto distanti dalle precedenti. Esistono dunque i Rainbow di Ronnie James Dio, quelli di Graham Bonnet, di Joe Lynn Turner e, infine, quelli di Doogie White, la cui memoria rimane colpevolmente sepolta sotto decine di album dal sapore medievale. Ma partiamo dall’inizio. Seppur maturata già durante le session di Burn, la decisione di lasciare la band che aveva contribuito a fondare insieme a Jon Lord e Ian Paice venne presa da Blackmore solo durante le session del successivo Stormbringer. “Non avevo fondato una band per suonare musica black, soul o come diavolo vogliamo chiamarla. L’idea era proprio opposta, avevo in mente altre sonorità, che magari inserissero elementi di musica classica nel tipico formato della canzone rock, ma non certo la roba che stavamo suonando nel periodo di Stormbringer. Avevo ancora voglia di fare casino”. Il realtà i problemi di Blackmore non riguardavano soltanto il nuovo sound del gruppo, ma di certo ne scatenarono l’ira. Tuttavia, la soluzione per abbandonare una barca di cui non si sentiva più il timoniere era più vicina di quanto potesse immaginare e in quel periodo viaggiava in tour proprio con la band di Smoke On The Water: gli Elf di Ronnie James Dio. “Avevamo messo sotto contratto la band con la Purple Records, perché sia Roger Glover che Jon Lord mi avevano parlato per giorni interi della bravura del cantante. Erano anche delle bravissime persone e legai subito con loro in tour, ma ci misi un anno per rendermi davvero conto di quanto fosse bravo Ronnie”. Dal canto suo, il riccioluto cantante di origini italiane confermò la leggenda secondo cui il chitarrista si avvicinò a lui solo dopo più di un anno dall’inizio del tour: “Non ci dicemmo una parola per quasi un anno. Era circondato da decine di persone che volevano riuscire a carpirne i segreti e chiaramente io non ero tra quelli. Mi dicevo: ok, tu sei Blackmore e io no, se vuoi venirmi a parlare sono qui”. Una sera, dopo un concerto nel Connecticut, avvenne l’incontro che ruppe il ghiaccio e pose le basi per la nascita dei Rainbow; il resto lo fecero l’alcol e qualche sessione clandestina che diede vita al singolo Black Sheep Of The Family, una cover dei Quatermass rifiutata dai Deep Purple e alla prima composizione a quattro mani, 16th Century Greensleeves. Il materiale d’archivio per un disco solista era pronto da tempo, grazie a tutti quei brani che gli ex compagni avevano scartato durante le registrazioni degli anni precedenti, ma rimaneva ancora un tour da compiere per contratto con i Deep Purple. Dopo aver provato clamorosamente a strappare alla band il cantante David Coverdale, Blackmore convocò nuovamente Dio per mettersi a lavorare a quello che sarebbe diventato il suo debutto solista, Ritchie Blackmore’s Rainbow. A questo punto, però, anche Ronnie volle qualcosa in cambio della propria partecipazione: che gli Elf venissero reclutati per intero come backing band. “Approfittammo delle sei settimane che mi dividevano dal nuovo tour dei Deep Purple e creammo un album fantastico. Il clima era così amichevole che mi accorsi di quanto fosse orribile quello con i Deep Purple: lì si trattava solo di professionalità esasperata. Niente confronti, niente idee”. E infatti, alla fine del tour europeo programmato e con già nei negozi il primo capitolo della sua nuova avventura, le strade di Blackmore e i Deep Purple si divisero per i dieci anni successivi. Tuttavia, con una mossa che mostrava perfettamente tutta l’incoerenza e le contraddizioni del suo animo, prima ancora di portare in giro per il continente il nuovo gruppo, Blackmore si accorse che gli stessi musicisti di cui aveva parlato così bene non erano affatto adatti al tipo di rock che aveva in mente. In effetti, nonostante una qualità compositiva elevata e una serie di brani seminali come Catch The Rainbow e Man On The Silver Mountain, l’album risentiva di un suono e di una produzione inadeguati e suonava come un disco di diversi anni prima.

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Licenziati in tronco gli Elf, considerati tra le cause del sound datato, vennero così reclutati musicisti di maggiore spessore, quali Cozy Powell, ex batterista del Jeff Beck Group, l’ex Harlot Jimmy Bain ed il tastierista Tony Carey. Con la nuova formazione partì dunque finalmente il primo tour della band e l’ottimo clima, favorito dall’unione sempre maggiore tra Blackmore e Dio, portò alla creazione di brani da aggiungere ad una scaletta che iniziava ad andare stretta ad una band in fortissima crescita. Videro così la luce Do You Close Your EyesStargazer e A Light In The Black. “I brani nascevano in modo spontaneo” – ricorda Cozy Powell – “Ritchie era molto determinato e l’alchimia tra i componenti della band era così elevata, che molte delle composizioni di Rising presero vita durante le prove per i concerti. Quel disco rappresenta l’apice della collaborazione tra Ronnie e Ritchie, quello in cui l’amore per la musica classica e medievale di Blackmore e la capacità di scrivere testi fantasy di Dio si fusero nel modo migliore”. La conferma migliore delle parole di Powell era forse racchiusa nel lato b del disco, composto da due soli brani, ma in grado di cambiare per sempre la storia della musica rock. La sconvolgente Stargazer, in particolare, ancora oggi è considerata la più perfetta incarnazione di quello che si intende come pezzo di epic hard rock: intro devastante di batteria di Cozy Powell, riff di chitarra tanto epico quanto duro e solenne di Blackmore, in cui la voce di Ronnie James Dio raggiunge uno degli apici della sua intera carriera, nonché una delle massime vette della scrittura fantasy prestata alla musica. La diretta conseguenza di quei trentasette minuti e dell’anno di tour che porterà la band per la prima volta in Giappone, fu On Stage, il primo disco ufficiale dal vivo dei Rainbow e l’ultimo a vedere in formazione Jimmy Bain e Tony Carey. Aperto dalla classica citazione del Mago Di Oz, tanto amata da Blackmore, e da quella Kill The King che avrebbe visto la luce solo sul successivo album, On Stage metteva in mostra perfettamente tutte le caratteristiche della band e le eccezionali doti dei singoli musicisti, pur non essendo la testimonianza di una sola serata, ma di più date di quel tour. Le dinamiche interne tuttavia stavano diventando molto complicate, soprattutto per via della voglia del chitarrista di iniziare a portare il sound del gruppo verso lidi più commerciali e radio friendly. Senza più Bain e Carey, Dio, Powell e Blackmore entrarono quindi in studio per dare un successore al fortunatissimo Rising: le prime parti di tastiera utilizzate appartenevano ancora a Carey e provenivano da session precedenti, mentre al basso venne reclutato l’ex Colosseum e Uriah Heep Mark Clark. Tuttavia, le manie di grandezza di Blackmore erano diventate così ingestibili da causare immediatamente il licenziamento di quest’ultimo, sostituito proprio dallo stesso chitarrista. Il bisogno di tornare a suonare come band, soprattutto dal vivo, costrinse però il gruppo a reclutare il bassista Bob Daisley e David Stone alle tastiere. I demo registrati in trio vennero dunque lasciati da parte e ripresi solo alla fine di un lungo tour europeo, che consentì alla nuova formazione di trovare i giusti meccanismi per poter rendere alla grande anche in studio.

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In realtà l’apporto dei due musicisti non fu poi così ingente, visto che gran parte dell’album era già stato scritto e suonato nei mesi precedenti e che le parti di basso di Blackmore non avrebbero mai potuto essere sovraincise : Daisley suonò dunque solo in Gates Of Babylon, Kill The King e Sensitive To Light, mentre le mani di Stone si inserirono anche in The Shed e alla fine di L.A. Connection. Proprio l’inserimento nella tracklist finale di brani più commerciali rispetto al passato come le citate L.A. Connection e Sensitive To Light furono tra le cause del divorzio che maggiormente influì sul sound e sulle sorti future del gruppo: quello con Ronnie James Dio. L’idea del cantante era quella di continuare su una strada che, solo un paio d’anni prima, aveva visto anche Blackmore completamente entusiasta, stanco com’era di testi che parlassero solo di notti di sesso e birra a fiumi. Se brani come la title track, la velocissima Kill the King, o la toccante ballata Rainbow Eyes, erano ancora figlie di quella comunione d’intenti che li aveva visti uniti perfino al momento del licenziamento degli Elf, la scelta di spostare il tiro verso territori smaccatamente radiofonici non si sposava minimamente con l’idea di musica di Dio. Tuttavia, Ronnie non ebbe mai parole che non fossero d’amore nei confronti dell’ex compagno: “Volete che dica che Ritchie è una persona con cui non si può stare nella stessa stanza? Io non potrò che parlare sempre bene di lui e degli anni passati insieme: ero solo un cantante di buone speranze e con tanti sogni da realizzare, lui mi trasformò in una star e in un cantante stimato da tutti”. Prima di Dio, anche Daisly e Stone erano stati invitati gentilmente a lasciare la band, visto che su suggerimento di Cozy Powell vennero invitati ad unirsi alla band Don Airey, ma soprattutto l’ex Deep Purple Roger Glover: “Uscito dai Deep Purple scoprì di avere del talento per la produzione di dischi. Avevo anche fatto pace con Ritchie e Cozy era un mio grande amico, ma divenni il bassista della band solo alla fine delle session, quando ormai avevo scritto parte dei pezzi e suonato in tutti”. A questo punto, in preda ad un improvviso momento nostalgico, Blackmore rischiò di riformare tre quinti di quel Mark II che aveva contribuito a sgretolare: considerato il successo che stava ottenendo in Inghilterra, Ian Gillan venne invitato dal chitarrista a casa sua. “Ci ritrovammo dopo anni allo stesso tavolo” – ricorda Gillan – “Avevamo bevuto entrambi un po’ troppo e ad un certo punto Ritchie mi chiese se volessi entrare nella band. La cosa mi sorprese non poco, visto che in qualche modo era stata proprio una sua decisione quella di farmi fuori dai Deep Purple. Lo ringraziai, ma decisi che la mia carriera solista era più importante”. Sfumata la clamorosa reunion, rimaneva il problema di trovare un sostituto che fosse in grado di far fare il salto che Blackmore desiderava: dopo aver fatto audizioni a quasi ottanta cantanti, Roger Glover suggerì Graham Bonnet. “Roger mi cercò, dicendomi che secondo lui potevo essere l’uomo giusto. Conoscevo i Deep Purple, ma non sapevo nulla dei Rainbow, quindi andai a comprarmi un paio di dischi. La band mi aspettava in Francia e comunque mi chiesero di cantare Mistreated: iniziai così forte che tutti scoppiarono a ridere perché il microfono era ancora spento. Dopo un paio di minuti col microfono, il posto era mio”. Al di là della delusione dei fan per la dipartita di Dio, la nuova formazione non aveva nulla da invidiare alle precedenti e il lavoro di Glover in fase di produzione fu eccezionale. Nacque così Down To Earth, un album che, nonostante pezzi meno epici del passato e maggiormente orientati ad un pubblico generalista, non aveva perso un briciolo della forza dei due predecessori. Inoltre, conteneva due singoli in grado di scalare finalmente le classifiche di mezzo mondo: All Night Long e Since You Been Gone, scritta dall’hit maker Russ Ballard e già prodotta da Glover nel suo disco Winning del 1976. La versione dei Rainbow entrò nella top ten del Regno Unito e, a un anno dall’uscita, Down To Earth era ancora così presente nelle classifiche di vendita da suggerire a Blackmore di chiudere il tour di supporto all’album con un mega concerto, un raduno che vedesse esibirsi i più grandi gruppi hard rock al mondo sullo stesso palco prima degli stessi Rainbow. Scelta la cornice di Castle Donington, il musicista diede così vita alla prima edizione del Monsters Of Rock, rivendendone poi i diritti al promoter Paul Loadsby. Il successo finalmente raggiunto portò con sé diverse conseguenze spiacevoli: Cozy Powell, uno dei membri che avevano resistito di più alla corte di Blackmore, decise di lasciare la band proprio perché non più in sintonia con certe sonorità e, poco dopo, anche Bonnet seguì la stessa strada. “Quando Cozy lasciò la band finì gran parte della magi. Inoltre, del disco successivo sembrava importare poco a tutti, in particolare a Blackmore, che si limitava a venire qualche volta in studio e a lavorare sempre sulla stessa canzone, I Surrender”. Leggenda vuole, tuttavia, che l’idea di eliminare Bonnet venne come sempre al leader maximo: già da tempo nutriva infatti grosse perplessità sul cantante e, nonostante possedesse una gran voce, non era riuscito a soddisfare i suoi gusti difficili. Inoltre, la sua ostinata pervicacia nel mantenere un look diverso dal resto del gruppo avevano creato molto malumore, accentuato definitivamente poi da un forte abuso di alcool che spinse definitivamente Blackmore a licenziarlo.

Le session per il successore di Down To Earth diedero vita a diversi pezzi concepiti ancora per la voce di Bonnet, tanto che quando venne reclutato Joe Lynn Turner, egli fu costretto a cantare quei brani con un registro vocale troppo alto per i suoi standard. Questo non impedì a Difficult To Cure di raggiungere il terzo posto in classifica, record assoluto per il gruppo, forte di una produzione ancora più mainstream e lontana anni luce anche solo dal suo predecessore, che comunque manteneva ancora un filo diretto col passato della band. Gran parte del merito di quel successo era dovuto proprio a quella I Surrender che la band stava registrando quando Bonnet se ne andò: scritta ancora da Ballard, la canzone divenne infatti il brano più venduto della storia dei Rainbow. Pur avendo perso completamente i contatti con le proprie origini e non mantenendo nemmeno un membro dei tempi di Rising, Blackmore aveva finalmente trovato ciò che andava cercando. Bobby Rondinelli non aveva la classe di Powell, ma il suo drumming era perfetto per il nuovo sound della band e Turner possedeva un timbro ultra melodico, che si sposava alla perfezione con l’AOR tanto inseguito da Blackmore. La voglia di battere il ferro finché ancora caldo riportò immediatamente la band in studio, per poter sfruttare al massimo il momento fortunato, ma l’ispirazione dei bei tempi sembrava definitivamente tramontata. L’addio di Don Airey, che Blackmore credeva indolore, finì inoltre per farsi sentire anche in fase compositiva: il sostituto David Rosenthal era sì bravo, ma non dotato del talento necessario per lasciare il segno in fase di songwriting. Straight Between The Eyes mostrava però impietosamente quanto fosse lo stesso Blackmore a sembrare sempre più l’ombra di se stesso, nonostante qualche brano come l’opener Death Alley Driver facesse pensare il contrario: mai un guizzo o un riff geniale di quelli che ne avevano alimentato il mito e l’ego. Stone Cold divenne il nuovo brano spacca classifiche e l’album raggiunse facilmente il quinto posto delle charts inglesi e il trentesimo in quelle americane, ma la via sembrava ormai segnata. Sempre secondo la logica della pubblicazione di un disco all’anno, appena concluso il tour di supporto a Straight Between The Eyes, la band si rimise immediatamente al lavoro per dare vita al settimo album della propria carriera. Questa volta ad andarsene fu Bobby Rondinelli, sostituito da Chuck Burgi, anche se la vera assente sembrò ancora una volta l’ispirazione. Sempre più orientata al rock radiofonico americano, la band sembrava ormai procedere col pilota automatico, senza più quella voglia di stupire che, nel bene o nel male, aveva sempre caratterizzato i progetti di Blackmore. La cosa migliore di Bent Of A Shape era infatti forse la copertina, opera di Storm Thorgerson e davvero suggestiva; il resto, purtroppo davvero poca cosa. Secondo i maligni, sia Glover che Blackmore per tutto il 1983 furono maggiormente impegnati nella preparazione della clamorosa reunion dei Deep Purple che avrebbe visto la luce l’anno seguente, ma la realtà era forse più impietosa: la voglia di sfondare in classifica aveva finito per esaurire la voglia di fare musica dei due e, in qualche modo, gli si era rivoltata contro. Per rivedere nei negozi un nuovo album dei Rainbow, i fan dovettero aspettare che Blackmore lasciasse per sempre i Deep Purple. L’idea iniziale del musicista era quella di un album solista, ma la casa discografica lo convinse presto a recuperare il vecchio moniker Ritchie Blackmore’s Rainbow, quasi a chiudere idealmente un cerchio iniziato vent’anni prima. Coadiuvato già dalla futura moglie Candice Night, Blackmore rimise quindi in piedi la band che, a sorpresa, non presentava nessuno dei componenti di quella di Bent Of A Shape, nemmeno quel Joe Lynn Turner che aveva provato a far diventare il nuovo cantante dei Deep Purple per il terribile Slaves And Masters. Scovato il giovane cantante Doogie White, in grado di cantare canzoni di ogni era della band e circondato da musicisti di talento ma sostanzialmente ignoti al grande pubblico, Blackmore fu libero di agire secondo la propria volontà e la cosa lo aiutò a ritrovare quella vena artistica che sembrava scomparsa all’inizio degli anni ottanta. Epico, blues e talvolta maestosamente kitsch, Strangers In Us All racchiudeva in sé tutte le anime di Blackmore, oltre a dimostrarne nuovamente l’influenza su decine di gruppi epic e power metal. La presenza di Candice, sia in fase di sogwriting che come ospite, rappresentava poi idealmente il passaggio di consegne con quello che sarebbe stato il suo futuro. Un futuro senza l’unica compagna ad aver mai lasciato i Rainbow: la sua Stratocaster.