La Storia Dei Van Halen

Amati, odiati, rimpianti ed acclamati ad ogni ritorno sui palchi di mezzo mondo: dei Van Halen si può dire tutto, ma non che non siano in grado di fare notizia sempre e comunque. Fin dai primissimi giorni, la band di Pasadena è passata da successi clamorosi a flop colossali, il tutto condito da una serie infinita di conflitti interni non ancora conclusisi. La loro storia è di quelle da raccontare.

Il 1977 era stato l’anno del punk, quel movimento culturale prima ancora che musicale che avrebbe dovuto spazzare via tutto ciò che il classic rock aveva rappresentato per l’intero decennio precedente. Basta sfoggi di tecnica inutili, testosterone e atteggiamenti machisti. Soprattutto, poi, basta assoli tediosi e fini a se stessi. Un anno più tardi, quando il mondo poté ascoltare per la prima volta la chitarra di Eddie Van Halen esplodere su Runnin’ With The Devil, la prima traccia dell’album di debutto della sua band, tutta quella rivoluzione venne spazzata via nel giro di pochi minuti. E dire che le maggiori case discografiche avevano snobbato completamente la proposta della band, tanto che la sfilza di rifiuti collezionati aveva quasi convinto i giovani musicisti del fatto che il loro destino fosse diverso da quello che Gene Simmons aveva prospettato loro. Il deus ex machina dei Kiss li aveva infatti visti suonare al Whiskey A Go Go di Los Angeles, restandone così incantato da spingersi ad investire soldi e tempo per cercare loro un’etichetta in grado di valorizzare un talento che aveva solo bisogno di essere sgrezzato. In particolare, Simmons era stato colpito dal giovane chitarrista del gruppo: “Era impossibile non rimanere estasiati. Avevo sentito molti grandi musicisti e tanti li conoscevo personalmente, ma mai mi era capitato di rimanere a bocca aperta come di fronte a Van Halen. Quella sera capii che avrei dovuto avere una parte nel loro successo”. Eddie non era l’unico Van Halen della band: il fratello Alex, infatti, ricopriva il ruolo di batterista nel gruppo, anche se in origine i due fratelli suonavano uno lo strumento dell’altro. “Un giorno Alex per prendermi in giro si mise a suonare la batteria” – ricorda Eddie – “e fu subito chiaro che possedesse qualcosa che non concerneva con la tecnica o le lezioni di musica prese da piccoli. Quella casualità fece sì che, quasi per competizione, io mi mettessi a suonare la chitarra: segno che alle volte le cose vanno in una direzione perché è così che devono andare”. Completavano la band Michael Anthony, un bassista che esteticamente aveva davvero poco a che fare con l’immaginario rock ‘n’ roll, ma che era in grado di suonare preciso e quadrato come pochi qualsiasi tipo di genere musicale e David Lee Roth, istrionico sciupafemmine trasformatosi in cantante, il cui compito era quello di portare avanti quella tradizione di rockstar che pochi mesi prima i Sex Pistols avevano provato a seppellire per sempre.

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Quando la Warner Bros, la prima comprendere davvero le potenzialità del gruppo, mise sul mercato Van Halen, le reazioni di pubblico e critica furono radicalmente differenti: se quasi tutte le riviste specializzate li bollarono in maniera sbrigativa come copie sbiadite di Led Zeppelin e Deep Purple, il pubblico li premiò portandoli subito in Top 20, estasiato in particolare dall’incredibile stile chitarristico di Eddie. Il suo stile partiva da basi assolutamente riconoscibili, in particolare da quello che sembrava uno studio approfondito del trittico Jimmy Page, Ritchie Blackmore e Jeff Beck, per poi arrivare a risultati mai sentiti prima, tanto in termini di velocità esecutiva che di mero gusto. “Tutti continuavano a sentire un sound riconducibile a Blackmore, anche se in realtà non è che mi fossi proprio fissato sul suo stile. Mi piacevano moltissimo i chitarristi inglesi di quella generazione, ma credo di aver davvero perso le dita sugli spartiti di Clapton, che allora vedevo come una sorta di marziano. Poi amavo Brian May, un vero innovatore dello strumento”. In comune con il chitarrista dei Queen, in futuro amico e co-compositore dell’album Starfleet, Eddie non aveva solo una tecnica che gli permetteva di spingersi su territori proibiti ai più, ma anche il fatto di essersi in pratica costruito il proprio strumento. Proprio quella chitarra, in seguito conosciuta come Frankenstrat, che presto divenne il vero simbolo della band, così conosciuta da rappresentare spesso un vero logo usato al posto dello stesso moniker Van Halen. “A prima vista sembrava una Stratocaster, ma in realtà nasceva dall’assemblamento di diverse parti di chitarra comprate da Charvel Guitars, un negozio in California che mi avevano consigliato per le loro custom. In verità mi limitai a comprare un corpo e un manico, che nell’insieme pagai un centinaio di dollari: volevo sperimentare con lo strumento e volevo che possedesse le parti che preferivo sia di una strato che di una Gibson. A causa dei pickup single-coil, la chitarra inizialmente aveva un suono troppo esile, quindi decisi di montarvi dei pickup humbuckers provenienti proprio da una Gibson, che avevo sempre trovato molto pesante da imbracciare. Per fare ciò dovetti allargare l’alloggiamento per il pickup, senza preoccuparmi di come potesse risultare esteticamente”. Il resto lo fece il look che Eddie decise di dare al proprio strumento: dapprima verniciando strisce nere sul fondo bianco, proprio come si poteva vedere sulla copertina del primo album, poi negli anni a seguire aggiungendovi le classiche strisce rosse che la resero iconica.

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Motivata a sfruttare il successo del primo album, la casa discografica decise di investire immediatamente sul seguito di Van Halen, che senza grossi sforzi di fantasia prese il nome di Van Halen II: un titolo giustificato anche dal fatto che i nuovi brani erano nati insieme a quelli precedenti, tanto da essere già presenti sulla demo finanziata da Gene Simmons tre anni prima. Le caratteristiche delle nuove registrazioni erano quindi sostanzialmente quelle del disco precedente, con la mancanza però di un brano catchy e ruffiano da usare come singolo apripista , come era stata la cover di You Really Got Me. Questo perché ormai la sensazione della Warner era che il nome della band, ma soprattutto quello del geniale chitarrista, bastasse da solo a far scalare maggiormente le classifiche rispetto all’anno precedente. In realtà, nonostante il chitarrismo di Van Halen fosse già diventato oggetto di studio, anche la personalità di David Lee Roth aveva fatto definitivamente breccia nel cuore del pubblico, soprattutto di quello femminile. Pur non essendo il cantante più dotato sulla piazza, Roth di certo era un animale da palcoscenico di razza e il suo modo di stare sul palco, oltre che le sue trovate da guascone, colpivano la massa quanto i virtuosismi di Eddie. I risultati, ad ogni modo, non si fecero attendere: Van Halen II raggiunse in breve tempo il 9 posto di Billboard, consacrando definitivamente la band come new best thing del panorama hard ‘n’ heavy mondiale. Alla fine del 1979, la band si ritrovò in studio per dar vita al terzo album nel giro di tre anni, questa volta con l’idea di apportare qualche novità rispetto al passato recente. Oltre ad essere il primo disco a non presentare cover, Women And Children First fu anche il primo album a presentare delle massicce sovraincisioni. Allo stesso tempo, Van Halen aveva ormai perfezionato completamente la tecnica che l’avrebbe reso davvero celebre nel mondo: il tapping. Non che quel metodo fosse inedito nella storia del rock, visto che addirittura alcuni blues man nei primi anni venti avevano mostrato abilità nella tecnica: quello che nessuno aveva fatto, però, era farla diventare l’elemento portante del proprio stile musicale. La leggenda vuole il chitarrista scoprì il tapping mentre era impegnato nella riproduzione dell’assolo di Heartbreaker dei Led Zeppelin. Eddie lo stava studiando da tempo, senza riuscire però a trovare un modo per suonare le veloci sezioni legate dell’inizio: a quel punto, quasi per caso, scoprì la tecnica il cui perfezionamento lo rese famoso nel mondo.

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Intanto, sempre fedele all’idea (forse imposta) della pubblicazione di un album all’anno, nei ventiquattro mesi successivi il gruppo diede alla luce rispettivamente Fair Warning e Diver Down, durante le cui registrazioni iniziarono ad emergere i primi problemi legati tanto ai vizi dei due leader, quanto ai loro ego, che diventavano sempre più enormi col passare del tempo. In particolare, uno dei maggiori elementi di discussione verteva sulla questione delle vedute musicali di Eddie Van Halen e Diamond Dave: il primo voleva mantenere la struttura dei brani complessa e ricca di passaggi che avessero poco a che spartire con un sound radio friendly, mentre il secondo era convinto di poter raggiungere le vette delle classifiche mondiali solo ammorbidendo le sonorità dei nuovi brani. L’unica certezza era che nel 1983, complice lo storico assolo di Eddie su Beat It di Michael Jackson, non vi era un gruppo al mondo celebre (e pagato) quanto i Van Halen. Questo clima trionfale aiutò a trovare un compromesso tra il songwriting dei due maggiori compositori della band, il cui risultato fu testimoniato dalla creazione dei brani che sarebbero andati a comporre 1984, il disco della svolta commerciale, quello che da lì a qualche mese qualsiasi teenager americano avrebbe posseduto nella propria collezione di dischi. Sfruttando anche l’astro nascente di MTV, ma soprattutto strizzando l’occhio a quelle sonorità che stavano andando per la maggiore in ambito pop rock, i Van Halen diedero vita ad una manciata di pezzi in grado di risultare credibili tanto per i loro die hard fan, che per la massa di fruitori musicali che compravano un album sulla base del singolo trasmesso dalla televisione. In questo senso, Jump, con le sue celeberrime tastiere, era il pezzo hard pop definitivo: in pochi mesi, complici anche altri pezzi da novanta come Panama, I’ll Wait e l’altro classico di MTV Hot For Teacher, il disco fu in grado di vendere più di dieci milioni di copie.

Come spesso accade, però, il successo di massa porta con sé effetti nefasti: gli attriti presenti nei mesi precedenti alla composizione di 1984 vennero amplificati dalla scelta di Roth di lavorare al proprio debutto solista senza dire nulla ai compagni. Varie teorie vennero esposte sull’allontanamento di Diamond Dave: una delle ipotesi riguardava il fatto che David stesse appunto lavorando al suo album solista e che avesse già intenzione di andarsene prima di venire allontanato come traditore. In ogni caso, la natura ultra egocentrica di David probabilmente aveva già creato una grossa frattura all’interno del gruppo e il suo atteggiamento sarebbe stato una delle tante cause del suo addio. Sebbene nessuno riuscì mai a comprendere se effettivamente Roth fosse stato cacciato o, come continuava a sostenere lui, l’addio fosse stato dettato da un’insanabile differenza di vedute artistiche, la sua posizione nelle interviste dell’epoca rimaneva sempre la medesima, chiaramente segnata dell’assenza di rimpianti: “Mi chiedo cosa sarei diventato se fossi rimasto nella band. Di sicuro qualcuno di meno interessante ed evoluto. Probabilmente avrei seguito l’iter tradizionale, la scalata lunga e lenta verso la mediocrità, godendomi la gloria passata e vivendo di rendita per ciò che era stato. E non avrei nemmeno la metà delle storie da raccontare che ho oggi”. Almeno inizialmente, la carriera di Roth sembrava poter oscurare quella dei compagni rimasti senza frontman, quindi i fratelli Van Halen dovettero correre ai ripari in modo da recuperare il terreno perduto il più presto possibile. La scelta ricadde sull’ex Montrose Sammy Hagar, forse meno istrionico e cool del suo predecessore, ma di certo dotato di una vocalità che non permetteva paragoni tra i due: Hagar era in grado di cantare praticamente ogni cosa e di farlo con una facilità disarmante e, se a questo si aggiungeva il fatto che fosse anche un discreto songwriter, la scelta sembrava poter essere davvero quella perfetta.

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Inoltre, Hagar disponeva di un notevole numero di fan in grado di andare a colmare il vuoto creato da quelli che non riuscivano a concepire i Van Halen senza uno dei loro membri originali. Nonostante lo scetticismo iniziale, i rinominati Van Hagar, entrarono negli studi personali del gruppo uscendone con un album che portava proprio il nome degli studi stessi: 5150. Il tipo di musica, sebbene non si discostasse di molto dallo stile precedente e non fosse poi così distante dalla formula di 1984, era evidentemente aperto ad una fascia più ampia di pubblico. La scelta premiò i quattro musicisti, dato che il primo con un nuovo cantante al timone riuscì a fare ciò che prima non era mai accaduto: raggiungere la prima posizione delle classifiche statunitensi. Qualche giornalista insinuò che alcuni dei nuovi brani fossero stati scritti ai tempi del lavoro precedente e quindi concepiti per essere cantati dal vecchio frontman, anche se l’unica prova a riguardo sembrava poter essere il parziale cambiamento nello stile della band per il successivo OU812. Pubblicato nel 1988 e dedicato al padre di Eddie e Alex, anch’egli musicista e colui che aveva spinto i propri figli verso lo studio di uno strumento in tenera età, OU812 fu il primo album da anni a non entusiasmare fan e critica. Se per qualcuno i Van Halen erano ormai la versione più credibile dei Led Zeppelin degli anni ’80, per altri la nuova formazione si era ormai assestata su un rock radiofonico priva dell’animalità e della genuinità che ne aveva caratterizzato i primi anni. I secondi furono in qualche modo incoraggiati dal terzo album scritto in compagnia di Hagar, For Unlawful Carnal Knowledge (conosciuto anche come F.U.C.K.). Il disco presentava effettivamente una serie di brani di rock granitico, ma spesso banali, ma fu anche il primo a far ricevere al gruppo dei premi prestigiosi: un Grammy per il migliore album hard rock e il premio per il video dell’anno da parte di MTV per il singolo Right Now. Il titolo fu una scelta di Hagar, in opposizione alla crescente vena censoria che stava dilagando negli States: “Il mio voleva essere uno schiaffo alla censura, a tutti quegli organi inutili che perdevano il loro tempo a cercare volgarità nella musica rock, senza pensare ai veri problemi del Paese. Decisi inizialmente di chiamare il disco semplicemente FUCK, poi un amico mi disse che il termine stava per For Unlawful Carnal Knowledge e mi sembrava potesse essere una presa per il culo ancora maggiore.”

Van Halen 1985  Michael Anthony, Eddie Van Halen, Alex Van Halen, Sammy Hagar   (Photo by Chris Walter/WireImage)

Nonostante i risultati continuassero a dare ragione al gruppo, le prime tensioni iniziarono a serpeggiare in seno alla band, soprattutto per le classiche diatribe legate alle personalità dei due elementi più in vista. Dopo la pubblicazione del primo deludente live della band, nel 1995 gli scaffali dei negozi vennero invasi dalle copie di Balance, l’ultimo del periodo con Hagar. Pur vendendo quattro milioni di copie e raggiungendo come tutti i precedenti album il primo posto in classifica, Balance fu la classica goccia che fece traboccare il vaso: i problemi con l’alcol di Eddie, presenti da anni ma ora giunti all’apice, uniti all’incompatibilità ormai assodata tra la visione artistica di Hagar e dei due fratelli portò i musicisti a lavorare separatamente per gran parte del tempo. La quasi totale assenza di Anthony, diventato da poco padre, fece il resto: il bassista faceva da tempo da collante tra il frontman, di cui era diventato grande amico, e i due Van Halen, con cui suonava ormai da vent’anni. La rottura definitiva avvenne però solo l’anno successivo, durante la registrazione di due nuovi brani destinati alla colonna sonora del film Twister, che culminarono nell’esclusione di Hagar dalla band, nonostante il gruppo affermasse ancora una volta che fosse stato il cantante ad andarsene. “Credo che io e Michael fossimo davvero uniti” – ricorda Hagar – “Eddie e Alex saranno sempre la band, anche se onestamente non ho nulla contro Alex: è con Eddi che non si può convivere. L’ultimo tour con loro è stato un’esperienza orribile, non ho alcun rimpianto a parlarne in questi termini. Anzi, sono gentile, a mio parere, a non dire tutto quello che è successo. Fu proprio una brutta storia”.

Fu proprio in quel momento che lo stesso Van Halen pensò ad un possibile ritorno di David Lee Roth per la pubblicazione di un Greatest Hits con inediti ed un eventuale reunion tour. La carriera dell’ex Diamond Dave era allo sbando, tanto che il biondo cantante, non sapendo più con chi prendersela iniziava a dare la colpa della propria eclissi ai Nirvana e al movimento grunge (“Prima suonavo davanti a 12.000 persone, poi sono passato a 1.200. Dagli stadi ai casinò, alle fiere ai localini. Dopo Cobain il divertimento non è più stato divertente”); la band che aveva abbandonato a metà degli anni ottanta, invece, aveva continuato a sfornare album che, seppur non proprio originalissimi, continuavano a tenere alto il nome di un moniker che ormai poteva considerarsi classico quanto quello dei grandi nomi degli anni settanta. Il tentativo, tuttavia, fallì miseramente: nonostante le difficoltà recenti, il temperamento di Roth non era mutato di una virgola, tanto da rendere la situazione invivibile dopo pochissime settimane. A sorpresa, dopo una serie di audizioni atte a reclutare un frontman il cui ego non fosse elevato quanto quello dei predecessori, l’ex Extreme Gary Cherone divenne ufficialmente il terzo cantante del gruppo. “Volevamo qualcuno che fosse parte della macchina e non solo l’ornamento sul cofano. Qualcuno con un atteggiamento sano, con la voglia di lavorare assieme, collaborare, essere sullo stesso piano, leggere lo stesso libro. Qualcuno che non firmasse contratti per proprio conto e che non facesse altro che interessarsi del gruppo. Gary era proprio come me e Alex”. Il sodalizio non diede tuttavia i frutti sperati, dando vita ad un solo album, Van Halen III, dalle caratteristiche sperimentali e in grado di scontentare quasi tutti i fan. Poco dopo, la scoperta di un tumore da parte di Eddie Van Halen portò allo scioglimento del gruppo e all’aborto di un progetto legato ad un nuovo disco, ma solo dopo un ultimo concerto tenuto nelle isole Hawaii. In una girandola senza fine di colpi di scena e ritorni di fiamma, nel 2003 ci fu un nuovo ritorno in seno al gruppo di Sammy Hagar, richiamato per pubblicare The Best of Both Worlds, una raccolta dei più grandi successi della band con l’aggiunta di tre nuove tracce. L’anno seguente, a suggellare la riappacificazione, i Van Halen ripartirono per un tour dall’esito sorprendente, diventando uno dei più lucrosi dell’anno. Nonostante ciò, tuttavia, si ripresentarono gli storici problemi di Eddie con l’alcol, che minarono totalmente un clima che sembrava davvero essere tornato quello di un tempo. Hagar, sconcertato dalle condizioni psicofisiche del chitarrista, alla fine del tour si rifiutò così di proseguire la sua avventura col gruppo, salutando per sempre la famiglia Van Halen. Nel settembre 2006 anche Michael Anthony, colpevole di essere ancora in ottimi rapporti con Hagar, venne cacciato dalla band e rimpiazzato dal figlio di Eddie, Wolfang. Per festeggiare l’inserimento nella Hall Of Fame, l’anno successivo avvenne l’impensabile: dopo rumors durati mesi, venne annunciato un reunion tour con David Lee Roth, che si ritrovava così ad essere il cantante dei Van Halen dopo 22 anni dalla sua ultima esibizione nella band. Eddie, a questo punto, capì di essere al classico bivio decisivo, annunciando il ritiro in un centro di riabilitazione, deciso a tornare ai massimi livelli per onorare un’occasione di quella grandezza. Quando finalmente uscì dalla clinica, la riunion con Roth venne ufficializzata e sancita dall’ennesima stoccata di questo nei confronti di Hagar: “Sammy è un ottimo performer, ma resterà sempre un cantante dei Van Halen. Io per tutti sono il cantante del gruppo”. Nel gennaio del 2012, dopo un’attesa durata quasi trent’anni, venne annunciata l’uscita del successore di 1984, A Different Kind of Truth, un album che pur non entusiasmando del tutto ebbe il merito di riportare la band su territori dimenticati da troppo tempo. La recente uscita di Tokyo Dome Live In Concert, primo live con Diamond Dave al microfono, nemmeno a dirlo è l’occasione per l’attesa rivincita di Hagar: “Non sono la persona più indicata per parlare di un disco dei Van Halen, ma non capisco come si possa pubblicare qualcosa di ufficiale di qualità così scadente. David sembra un dilettante. Non è mai stato un grande talento, ma ora è davvero finito”. And it goes on and on and on…