Foo Fighters: Nessuno Come Loro

Ci sono tante band capaci di sfornare buoni album e proporre buoni concerti. Poi ci sono quelle che con dischi e live lasciano un segno indelebile nella storia della musica. Come i Queen. Come i Foo Fighters, che della band di Freddie Mercury sono ideali eredi, per lo meno quanto a potenza e impatto degli show. Nonostante abbiano inciso alcuni dei migliori album rock degli ultimi due decenni, è sul palco che Dave Grohl e soci danno il meglio di loro stessi. In attesa del loro imminente ritorno in Italia, cerchiamo di capire perché.

Parlare dei Foo Fighters oggi è un po’ come parlare dei Queen nel 1986. Dave Grohl e Taylor Hawkins sono infatti riusciti a raggiungere lo scopo che si erano inconsciamente (?) prefissati alcuni anni or sono, al momento del loro incontro ai tempi di The Colour And The Shape: andare a colmare quel vuoto lasciato sui palchi di mezzo mondo proprio dalla band di Freddie Mercury e compagni, riuscendo a ricreare quel perfetto mix tra pop e rock che permise alla Regina di diventare l’attrazione live più richiesta alla metà degli anni ottanta. Qualcuno, vista la sostanziale differenza musicale tra le due band, potrebbe inizialmente storcere il naso, ma chi davvero conosce il background dei musicisti coinvolti e ne ha seguito l’evoluzione, impiegherà pochi minuti per rendersene conto. Se, infatti, musicalmente la band formata da Dave Grohl all’indomani della tragica fine dei Nirvana pare essere più una derivazione degli Hüsker Dü di Bob Molud e Grant Hart piuttosto che degli autori di We Are The Champions, ad una analisi più approfondita le distanze finiscono per assottigliarsi notevolmente.

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Pur avendo mantenuto una pesantezza di fondo aliena alla produzione dei Queen, la capacità di creare melodie e le spiccate doti di performer di Grohl, unite alla compattezza senza fronzoli del gruppo, ha di fatto ricreato lo stesso tipo di magia che permeava gli ultimi tour dei loro beniamini. Molti non lo sanno, ma lo stesso Cobain, noto ai più per l’attitudine punk che non per l’amore per la rock opera, era stato un fan dei Queen, in particolare del primo periodo della band. Il fatto poi che, da lungo tempo, i Foos propongano dal vivo Tie Your Mother Down, Under Pressure e altre chicche, spesso accompagnata proprio da Brian May e Roger Taylor, è solo la punta di un iceberg di cui pare difficile scorgere la fine. Difficile infatti trovare un’intervista in cui Grohl o Hawkins non ricordino l’importanza di Mercury e compagni per le proprie vite, così come è impossibile non rivederne la stessa attitudine in fase live. Il ritorno imminente nel nostro paese, con l’aggiunta in extremis della data di Cesena, non fa altro che dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto il gruppo sia ormai una delle maggiori attrazioni mondiali in fatto di musica dal vivo. Difficile infatti trovare oggi una band dall’età media così bassa in grado di competere con i mostri sacri del rock: gente che, nel migliore dei casi, ha superato da qualche anno le sessanta primavere.

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D’altra parte, che l’ex batterista dei Nirvana fosse un animale da palcoscenico di razza lo si era già capito ai tempi degli esordi con la band di Aberdeen: il suo arrivo non solo riuscì a dare finalmente al gruppo quel suono pieno e potente tanto ricercato da Cobain e Novoselic durante i primi anni, ma soprattutto cambiò l’attitudine della band dal vivo. Il suo devastante drumming, istintivo e grezzo ma di presa immediata, fece finalmente fare alla band quel salto di qualità a livello musicale che, unito a un lotto di canzoni perfette, le permise di spiccare definitivamente il volo oltre i confini della musica indipendente, trasformando i tre musicisti da punk rocker di periferia in super star mondiali. Immediati fioccarono i paragoni con il leggendario John Bonham: “ Bonham è stato il più grande batterista della storia del rock. Era in grado di passare dalla cacofonia allo swing senza soluzione di continuità e con una semplicità disarmante. Fino a sedici anni ascoltavo solo hardcore, quindi ero lontanissimo da un certo tipo di sonorità, ma quando mi prestarono House Of The Holy la mia vita cambiò: decisi che avrei dovuto suonare in quel modo”. L’amore e l’affinità musicale per Bonzo, testimoniate anche dal tatuaggio raffigurante il celebre simbolo esoterico utilizzato sulla copertina di Led Zeppelin IV, erano così evidenti che, una volta conclusasi drammaticamente l’avventura con i Nirvana, la critica iniziò sistematicamente ad accostare il nome di Grohl a quelli di Page e Plant, intenti a tornare sulle scene proprio alla metà degli anni novanta. Tuttavia Dave aveva altri progetti per la mente, il primo dei quali, a sorpresa, era proprio quello di smettere di fare il batterista. Nella sua mente stavano infatti già nascendo i Foo Fighters, un progetto lontano anni luce dal grunge di cui suo malgrado era ormai diventato un’icona e per il quale aveva già pronte diverse canzoni. Con una scelta senza precedenti, Grohl non solo decise che il suo posto sul palco non sarebbe più stato dietro le pelli, ma lo fece senza attingere in alcun modo dalla tragedia che l’aveva coinvolto e che avrebbe potuto rappresentare il migliore dei trampolini di lancio. La voglia di creare una vera e propria live band ancor prima che una macchina sforna album, lo portò presto a cercare dei compagni in grado di aiutarlo e, inizialmente, la scelta sembrò ricadere proprio sull’ex compagno Krist Novoselic: visto che Pat Smear, già turnista dei Nirvana dopo la pubblicazione dell’album In Utero, fu aggiunto come secondo chitarrista, il rischio era tuttavia quello di trasformarsi in una pallida reincarnazione della band d’origine e la cosa spinse i due a rinunciare all’idea.

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Tutti quelli che credevano che l’unico membro dei Nirvana dotato di vero talento fosse Kurt Cobain, dovettero ricredersi immediatamente: il power pop della band sembrava creato appositamente per raggiungere il proprio apice sul palco, tanto che l’ampiezza delle location nel giro di pochi anni passò dai club ai grandi palazzetti per poi puntare dritta verso le arene. Quasi a segnare un’ideale passaggio del testimone, l’ingresso di Taylor Hawkins, l’unico batterista in grado di non far rimpiangere l’animalità di Grohl, permise alla band di effettuare un salto di qualità simile a quello che lo stesso Dave aveva apportato all’ingresso nei Nirvana. Se i critici continuavano a considerare la band un semplice divertissement di un sopravvissuto del grunge, il pubblico iniziò invece a capire che il progetto era molto di più del passatempo di un rocker annoiato. Nel giro di pochi anni, la fama di live act da non perdere per nulla al mondo iniziò a farsi sempre più strada da una parte all’altra del mondo, alimentata dal fatto che Grohl non suonasse nemmeno un brano dei Nirvana durante i propri show. Questo aspetto, tutt’altro che trascurabile se pensiamo che chiunque altro nella stessa situazione avrebbe probabilmente chiuso i propri show con Smells Like Teen Spirit, non ha fatto altro che confermare l’integrità dell’uomo Grohl, garantendogli la stima anche di chi non riusciva più a riconoscersi nella sua musica. Tuttavia, come in tutte le storie rock che si rispettino, dopo altri due album di successo e appena prima di spiccare il volo verso lo stardom mondiale, la band arrivò vicina allo scioglimento. Proprio come gli amati Queen all’alba del Live Aid, il gruppo sembrava giunto ad un punto di non ritorno: Grohl era sempre più interessato a progetti esterni (Queens Of The Stone Age, Probot) e la band ormai confusa, senza più linee guida né stimoli. «Mi sono chiesto cosa avremmo dovuto fare, se scioglierci o proseguire più decisi di prima. Poi pensai che non avevamo nemmeno compiuto dieci anni e mi sembrò assurdo non festeggiare degnamente un tale anniversario» ricorda il leader.

Furono i concerti tenuti a sostegno della campagna elettorale di John Kerry a dare nuovo slancio ai musicisti e a creare le basi per In Your Honor, doppio album che trasformerà finalmente la band da attrazione per palazzetti in super gruppo da stadi. Un acclamato tour acustico, un album di inediti meno efficace che in passato ma utile a rinverdirne i fasti elettrici e l’inevitabile Greatest Hits sancirono definitivamente lo status di star mondiali, tanto da rendere impossibile l’acquisto di biglietti per uno show a pochi minuti dalla messa in vendita. Wasting Light, vincitore di ben cinque Grammy Awards, anche grazie all’acclamato ritorno di Pat Smear, divenne semplicemente l’album rock migliore dei cinque, sei anni precedenti e li spinse dove mai erano arrivati in precedenza. Dopo l’esperimento di Sound City, che tra le altre cose portò alla folle reunion dei Nirvana con Sir Paul McCartney alla voce, ecco giungere l’ultima opera in studio, Sonic Highways, colonna sonora di una serie tv dedicata agli studi di registrazione più importanti d’America. Tutto per dimostrare nuovamente quanto nessun musicista moderno possa essere paragonato a Dave Grohl. Si faccia avanti chi è in grado di provare il contrario.